Murder Life
  ● Autore: Paichan

Disclaimer: Questa storia non ha fini di lucro (Ma va’?) né guadagno qualcosa a scriverla (See, magari...), non posseggo nessun personaggio di Final Fantasy, i cui diritti sono protetti dal copyright.. (L’autrice diventa un po’ triste) Sigh! Quanto vorrei però averne qualcuno, in tutti i sensi!!! (Ma quali sensi, scusa?!? NdTutti Sapeste.. NdA) E poi che noia sti’ disclaimer! Meglio...

Pensieri di una in un manicomio chiamato mondo:

Strano titolo per delle note, eh? Per questa fanfiction mi hanno della pazza e credo che continueranno..Ma non penso che siano più normali altri fanfictioner che scrivono per 75 volte come far resuscitare Aeris oppure altri particolari di personaggi che tra due minuti si sa anche il numero di scarpe che portano, quindi porto avanti questo parto mentale trigemino con la stessa fierezza di un samurai! (L’autrice assume una faccia molto corrucciata, in posa plastica e con le onde che si infrangono sulla scogliera, tipo pubblicità prima di un oav giapponese, ma non si accorge di un cavallone che la investe!) Oddio... Cough Cough! Aiuto.. ok, la pianto con le scemenze..
Buona lettura e per commenti, complimenti, critiche e bombe a mano, l’e-mail è Pailong_lucifer@yahoo.it



FIRST WOUND: NUVOLE RIFLESSE NELLA LAMA

Lavorava da pochissimo, eppure il sudore gli imperlava la fronte; non perché svegliarsi al mattino presto lo affaticasse più di tanto, ma perché la sua attività lo occupava a tal punto che, anche in un minimo movimento, spendeva una gran parte delle sue energie, alla ricerca della perfezione, che forse si rendeva conto che fosse solo effimera illusione, ma che comunque cercava di rendere più totale possibile.
Aveva appena finito di miscelare le polveri colorate con l’olio di lino, in modo da rendere il canvas, una volta stesa la tintura così preparata, simile a una superficie riflettente per assorbire la luce e rendere brillanti i colori , quando le scale furono scosse da passi di piccoli piedi frettolosi.
“Papà, è tardi!" esclamò il ragazzino mentre si infilava una maglia, scendendo le scale.
“No, non lo è." Rispose tranquillamente il pittore, mentre intingeva un sottile pennello di pelo di Muu nella tinta bianca.
“Ma come!" continuò l’altro, con una piccola nota di disappunto “Stai già dipingendo!"
“Volevo solo ritrarre la città nella luce del mattino, figliolo..Tu potevi continuare a dormire." Il padre, preso dalla stesura, non si accorse dell’occhiataccia che il figlio gli rivolgeva contro, a cui, a quanto pareva, non gli sarebbe affatto dispiaciuto mettere in atto tale proposito.

Si rassegnò; prese dalla credenza del pane e della marmellata e si accinse con tutta calma a fare colazione.

“Papà, ma ti piace così tanto questo posto?" chiese, un poco annoiato.
“Moltissimo.. Credo di non aver mai visto una città con una forza tale.. Così vitale come Alexandria!"
Il ragazzino non comprendeva bene “Lindblum è tornata a posto più in fretta!" fece notare
“Forse.. Tuttavia non è lodevole solo chi fa in fretta il lavoro, ma anche chi lo compie meglio. Se la lentezza si traduce in bellezza, allora è positiva."

Il ragazzino si pentì di non essersi morso la lingua prima di aver fatto quel commento: il padre, come la maggior parte degli artisti, tendeva a perdersi in una miriade di ideali, teorie e congetture a mezza via tra il filosofico e l’estetico, se opportunamente stimolato. Il difficile era interromperlo.

“Abbiamo avuto fortuna a trovare questa sistemazione.. Il venditore di scaraburi imbalsamati è stato gentile a darci le chiavi.. E poi da qui si gode una vista meravigliosa del castello!"

Era la fine; il padre aveva elevato il castello di Alexandria a suo massimo ideale artistico ed era solo questione di un momento che cominciasse a descriverlo in estatica contemplazione.
Infatti, mentre stava riprendendo in mano il carboncino, forse per modificare in fretta un particolare dello sfondo, volse lo sguardo verso il castello.

“Ah..Meraviglioso.. Amo quando i raggi solari si riflettono sul metallo della grande spada del castello! L’hanno tirata su veramente in fretta; fino a poco tempo fa pareva un pezzo di legno carbonizzato e adesso sembra quasi fatta di cristallo!"
Il bambino cercava di distrarsi pensando alla lezione che avrebbe chiesto la maestra quel giorno..Il problema è che non la ricordava; forse non era stata una buona idea passare il pomeriggio precedente con Hippo a giocare a carte.
“Infatti la parte più difficile da disegnare è proprio il riflesso speculare nella spada dell’ambiente circostante! E’ come fare il ritratto di una signora nella sua stanza piena di specchi: non sai mai da che parte guardare!"
Con quel chiacchiericcio non era facile ricordare che cosa avrebbe dovuto fare per quel giorno!
“E poi il canale che circonda il castello rende tutto più suggestivo, per non parlare poi.. Oh, diamine!" esclamò il pittore all’improvviso. “Ho finito l’avorio per il nero!"
Il bambino tirò un sospiro di sollievo; si era interrotto poco prima di iniziare tiritere sul simbolo che la spada poteva risultare per la rinascita di Alexandria.
“Questo è un bel guaio.. Volevo completare in fretta la serie di quadri per la regina.."

Mentre prendeva allora una giacca per passare in fretta dal ferramenta, che vendeva anche pigmenti, le sue riflessioni furono interrotte da voci infantili
“Papà, sono Ealia e Tomino a chiamarmi! Vado!" Prese di corsa la cartella e schizzò come un razzo fuori dalla porta.
I tre bambini si salutarono e presero correndo la strada per la scuola, finendo per spintonare un elegante signore che stava uscendo dalla vicina osteria.
“Volete fare attenzione, mocciosi?!?" urlò il tipo con un accento molto tolenese ai ragazzini che sfrecciavano via; quando vide però il pittore uscire fuori dalla sua casa, la voce dell’uomo si fece leggermente melliflua, salutandolo con un lieve gesto della mano.
“Come stai?" gli domandò con un sorriso tutto di saccarina “I tuoi quadri procedono bene?"
“A meraviglia!" rispose lui, non facendosi ingannare dal tono dell’interlocutore “Penso proprio che continuerò con questi soggetti, Rouel!" LA risposta non parve piacergli, ma, prima che potesse ribattere, una ragazza dal lunghi capelli azzurri si avvicinò con un’espressione a dir poco feroce in volto.

“Ah, E’ achi che sei?!? Pelandron! Stasera avemos la prima e la tua recitacion es pessima! Veni!" urlò la donna.
“Tiranna.." bisbigliò tra i denti “Finiamo il discorso un’altra volta.." continuò, girandosi con uno sdegnoso scatto “Eccomi Carmen! Stavo solo salutando un mio vecchio amico di Lindblum!"

A Carmen non sembrava importar molto di ciò “Donde estas Blank?" chiese, sempre con tono furioso
“E io cosa ne so!" rispose lui, avviandosi verso la piazza mentre Carmen salutava il pittore.

Tutta la scena era stata osservata dai bambini che ridevano a più non posso: Carmen, la padrona del teatro, riscuoteva molte simpatie nel rione, ma Rouel Brigis, l’attore, invece era antipatico a moltissimi e vittima quindi di scherzi e scherni.
Mentre anche loro prendevano la strada della piazza, si misero a chiacchierare sulla lezione del giorno, che sarebbe stata di storia, sulle “Guerre tra Alexandria e Lindblum", argomento peraltro noioso, ricchissimo di date, che sarebbe culminato, come al solito, in qualche lode ai regnanti della città.
Ridendo di ciò, passarono vicino al canale e il figlio del pittore si voltò a guardare il castello.
“Be’, a Lindblum non c’è una cosa così bella.." pensò “Però non c’è bisogno di tante chiacchiere per dirlo!" e seguì nuovamente i suoi compagni.

Se si fosse potuto tracciare una linea dallo sguardo del ragazzino, il capo sarebbe finito nello sguardo di un’altra persona che in quel momento, presa da altri problemi, guardava fuori dalla finestra del castello senza notare la bellezza della sua città ricostruita da poco.
Il vetro dell’infisso rifletteva un volto stanco, troppo serio per la giovane età che il profilo puro e l’incarnato roseo lasciavano trasparire; gli occhi scuri incastonati nell’ovale sarebbero pure potuti essere considerati attraenti, se non fosse stato per quel velo di preoccupazione che offuscava lo splendore spensierato tipico delle adolescenti e per quell’espressione corrucciata che le deformava le labbra sottili.
Con le piccole dita, armeggiava con il fermaglio che le teneva uniti i soffici capelli corvini; un piccolo gesto, acquisito da bambina, di spostare il fermaglio per accorciare o allungare la coda nei momenti in cui era nervosa o sovrapensiero.
Era stata lei a prodigarsi quanto più poteva per la ricostruzione della città e ora era preoccupata che tutto fosse stato inutile; la terrorizzava l’idea di vedere nuovamente distrutto ciò che proteggeva.
Per alcuni la guerra è considerata un terreno dove si può fare fortuna, divenire eroi..Molti guardano solo la fine di una guerra, quando passano i cortei di personaggi vittoriosi che, tra petali lanciati e ovazioni, salutano la folla..
La guerra non è questo.
La guerra è un mondo percorso da strade bagnate di sangue, punteggiato dalle macerie di case e vite distrutte, dove vagano le carriole trasportanti moltitudini di cadaveri vaganti alla ricerca di tombe, tra il profumo di terra di cimitero smossa e rumore di pialle su lastre di legno per bare.
Non voleva che nuovamente i suoi amati sudditi varcassero l’ingresso di quel mondo, proprio ora che la pace era di nuovo un’abitudine.
Molti dei suoi conoscenti, sentendo ciò che l’angosciava, forse l’avrebbero redarguita blandamente, giudicandola eccessivamente ansiosa per poco.
Eppure anche quella volta era iniziato tutto da qualcosa di piccolo..di infinitesimale rispetto a quello che avevano dovuto affrontare dopo.. Ciò l’aveva resa sospettosa, diffidente verso le facili conclusioni; molte cose si sarebbero potute evitare se lei avesse saputo reagire in modo più repentino, se non avesse fatto errori di valutazione.
Se questa era solo un’illusione creata per non pensare ai fili manovrati da qualcuno più potente che avevano controllato lei, piccola marionetta tra due mondi, poco importava: qualunque avesse ancora a che fare con la “nebbia" doveva essere spazzata via. L’aveva giurato.

Quella cascata di pensieri negativi fu arrestata da una voce roca che la chiamava da dietro la porta dello studiolo.
“Maestà, mi permettete di entrare?"
La regina si concesse una manciata di secondi per riaccomodarsi sulla sedia posta dietro allo scrittoio, il cui ripiano era ingombro di carte, e per sistemare un poco le pieghe dell’abito; anche quella un’abitudine, nonostante il vestito informale: una camicia bianca con dei volant di chiffon e pizzo al collo, che ricadeva morbidamente sul panno leggero dei calzoni verde scuro, coperta da una giacca dello stesso colore, cascante in falde ampie fino alle candide calzature con la fibbia, similarmente a un mantello, e bordate a filo d’oro.
“Prego, entrate pure" pronunciò, tentando di assumere un cipiglio sicuro delle proprie forze.
La porta di legno si aprì lentamente, lasciando libera la vista di un signore di statura piuttosto bassa, vestito di un’elegante palandrana color porpora, leggermente lisa tuttavia; dimostrava una certa età, ma i suoi occhi scuri tradivano uno spirito giovanile, come pure la facile inclinazione al sorriso che quei lineamenti sembravano avere e il buffo naso aquilino.
“Salute a voi, maestà!" pronunciò con un sorriso chiaro e un piccolo inchino. “Spero di non avervi interrotto in qualcosa di importante."
“No, assolutamente, Dott. Totto.. E’ sempre un piacere vedervi." Rispose lei, con calma.
Totto la guardò attentamente “Qualcosa vi turba?"
“Nulla in particolare...Solo brutti presentimenti." Affermò.
“Credo di capire..Tuttavia ritengo opportuno che vi tranquillizziate per mantenere la necessaria lucidità al momento giusto."
"Un momento che spero non arrivi mai."
Totto si raddrizzò gli occhiali e continuò “Forse Vostra Maestà esagera..Molte cose sono cambiate da quel periodo..E non è detto che ci sia una connessione tra i due fatti."
“Lo so..Solo che.." si interruppe “No, niente.."
Totto sorrise “E’ la grande quantità di cose spaventose che avete visto a rendervi inquieta, forse anche più del dovuto.. Per carità, le avete sopportate bene al di là di qualunque mia più rosea previsione per la vostra giovane età, ma non dovete tormentarvi troppo.."
“Se almeno riuscissi a comprendere cosa vuole dire tutto ciò!" esclamò la regina.
“Ciò che non si conosce appieno fa paura, specialmente se ricorda cose spaventose.. Tuttavia io mi fido del vostro giudizio e con me, molti altri che sono disposti ad aiutarvi. Dunque smettete di crucciarvi, perché non siete sola, regina Garnet.
“Vi ringrazio." Disse, un poco sollevata. “A proposito, posso chiedervi se eravate venuto per dirmi qualcosa di particolare?"
“Giust’ appunto volevo dirvi che il loro arrivo è prossimo, quindi vorrei iniziare i preparativi per il congresso."
“Sì, va bene.. Che siano accolti nel modo migliore!" Esclamò, forse mostrando un’eccessiva nota d’entusiasmo; il loro arrivo però la riempiva sempre di gioia, anche se quelle riunioni erano sempre più rare e mai avvenivano per motivi non formali.
“Certamente." Rispose il Dottore “Vi auguro buona giornata." Si volse verso la porta, poi però, come preso da un ripensamento, si rigirò e disse “Visto che manca poco, forse converrebbe che Vostra Maestà non si allontani troppo dal castello."
Garnet guardò un po’ sorpresa il Dottore “Sì, va bene..Ma dove dovrei andare?"
“Non saprei..Mi sentivo solo in dovere di dirvelo. Buongiorno." Detto, questo richiuse la porta alle spalle.

La regina non aveva per nulla compreso ciò che intendeva il suo consigliere, ma decise di non pensarci troppo e cominciò a riordinare le carte sul tavolo: documenti, bozze di editti, richieste di udienza.. Il lavoro di una vita su un unico ripiano..Tranne ovviamente quello che le serviva.



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Odori stuzzicanti ed esalazioni vaporose saturavano l’aria, mentre il donnone dalla pelle bianca e la lingua a penzoloni smanettava tra i fornelli alacramente, aggiungendo ingredienti e mescolando, come un alchimista tra i suoi alambicchi.
Assaggiando un composto da un enorme pentolone, esclamò “Ao’, na’ opera d’arte è sta’ cosa!" mentre gli altri cuochi la osservavano con sguardi animati da rispetto e ammirazione profesionali.
“Oggi se leccheranno li baffi, mica no!" disse nuovamente, continuando a muoversi febbrilmente tra le pentole e le padelle.
In quel momento, entrò silenziosamente un ragazzino; doveva avere press’a poco 18 anni, anche se la statura minuta poteva dargli un paio d’anni in meno. Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri erano dotati di quel raro scintillio che dava una vita trascorsa nell’esercitare la furbizia.
“Ciao Quina!" salutò allegramente “Come va qui?"
“Alla grande, Gidan!" rispose lei, allegramente
“Si sente!" continuò lui, annusando l’aria, che effettivamente era intrisa di odori deliziosi “Che prepari?"
“Un sacco de’ robba!" e cominciò a citare una sfilza di piatti raffinati “Crocche de’ tuberi ed erbette servatiche, Vellutata alla tolenese, Pasticcio de rognone e cacciagione della porta sudde, na’ mitica Torta alexandrina e.."

Prevedendo che sarebbe andata avanti per molto, Gidan la bloccò repentinamente, manifestando uan vistosa e costruita ammirazione e schioccando le labbar deliziato.
“Sarà una cena fantastica!" si complimentò lui “Ma qui fa caldo, Quina! Apriamo la finestra!"
Due novizi cuochi lo guardavano con evidente gratitudine per la proposta; era vero, stavano tutti sudando in garn copia, ma una specie di regola non scritta del cuoco era di cucinare a finestre chiuse, per non far disperdere eccessivamente calore e aromi e per evitare che l’aria deteriorasse il gusto dei piatti.
“Nun se ne parla neanche!" esclamò Quina, che però dovette cedere dopo pochi secondi al commento di un cuoco “Signora Quen, per due minuti non accadrà nulla..E poi se il sudore cade e si mescola a.."
Quina non lo lasciò continuare, schifata dal pensiero che le percorse la mente: i suoi amati piatti! Puah!
“E vabbe’, ma per poco.."
“Non disturbarti Quina, la apro io." Propose Gidan, avvicinandosi alla finestra e spalancandola. Un soffio di frizzante aria mattutina entrò subito come un balsamo per le fronti umide dei cucinieri.
“Grazzie regazzi’!" disse, girandosi e tornando a mescolare. “A proposito Gidan.."
Si voltò verso la finestra, ma il ragazzo era sparito.
“vabbe’.. Ma che ce faceva qua?" pensò Quina, ma se ne dimenticò subito e continuò a cucinare.



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Si guardò attorno con aria infastidita, alla ricerca di quel prezioso foglio.. Non che l’ambiente fosse poi così grande: era un semplice studiolo che una volta faceva parte della biblioteca, ma che poi il padre aveva separato. Non se ne capiva bene il perché, però era riuscito a ricavare un angolino di pace all’interno del castello, cosa di cui sua madre e poi lei stessa gliene erano grate.
Non era arredato in modo particolarmente sofisticato, ma con gusto e sobrietà; il mobile principale era lo scrittoio di palissandro intarsiato vicino alla finestra, su cui erano ammassate le carte, ma c’era anche una libreria che ricopriva una parete intera dove erano raccolti volumi trattanti i più disparati argomenti, una poltroncina il cui sedile era foderato di velluto rosso con delle nappine dorate e una sedia dello stesso legno dello scrittoio.
Nulla di particolarmente adatto a un componente della famiglia reale forse, ma abbastanza buono per trascorrervi delle ore tranquille a pensare.
Il documento che le serviva era intrappolato tra le pagine di un volume rilegato in cuoio, riportante a lettere d’oro il titolo di un’opera di Eiborn, che lei aveva consultato un attimo prima per rilassarsi.
Mentre stava per riprendere il foglio, sentì un leggero picchiettare sul vetro della finestra, come se un uccellino stesse sbattendo il suo becco sull’imposta.
Inizialmente non ci fece molto caso; il rumore tuttavia divenne presto più insistente e pesante: non faceva certo più pensare a un uccello.
Si avvicinò alla finestra e ne aprì le ante..

“Ciao Daga!"

La regina fece un sobbalzo indietro; appeso su un pennone da bandiera situato sulla finestra, c’era un ragazzo biondo dagli occhi celesti e dall’innocente e smagliante sorriso, come se fosse una cosa naturalissima stare lì.
“Gidan! Che diamine.." Esclamò lei, cercando di reprimere un’esclamazione che forse sarebbe risultata un po’ troppo volgare sulla sua bocca.
“Lo so che sei felice di vedermi, ma come reazione mi sembra esagerata!" disse divertito Gidan.
“Non potevi entrare dalla porta, come fanno tutte le persone normali?!?"
“Potevo..Ma avevo voglia di vedere solo te e questa mi sembrava la via più facile per non incontrare il samurai o altri!" Rispose lui, con il tono di chi afferma una cosa ovvia.

Garnet sospirò in modo rassegnato: aveva detto una cosa carina, in fondo.
Quello che aveva fatto era carino..
Ma stupido.
Assolutamente e incredibilmente stupido.
Le donne, quando vedono i loro uomini fare cose carine e stupide, devono combattere contro due istinti opposti.
Il primo è la tenerezza: tutte le donne, anche quelle più dure, provano tenerezza per i propri uomini e questo le porta a essere dolci nei loro riguardi, soprattutto quando fanno emerite scemenze per loro.
Il secondo è la severità: moltissime donne non possono fare a meno di far notare, spesso con dovizia di particolari, ai propri uomini le cavolate che fanno.
I due istinti in Daga si manifestavano molto chiaramente: il primo nel desiderio di far entrare Gidan e godersi un normale giorno da ragazza-adolescente-innamorata-che-pensa-agli-affari-propri mentre il secondo nella fiera intenzione di chiudere le imposte sulle dita del suo amato e immaginareselo cadere allegramente mentre tornava ai suoi affari da seria-saggia-responsabile- regina.
Era come avere un angioletto e un diavoletto sulle spalle che le punzecchiavano il capo.

“Ti avevo chiesto se per favore oggi potevamo non vederci!" gli ricordò Garnet, con un tono neutro nelle intenzioni, ma con una sottilissima nota di rabbia, datale da un certo prurito alle mani: possibile che lui si fosse dimenticato una richiesta così semplice? O che piuttosto non l’avesse nemmeno voluta rispettare?
“Lo so.. Il pensiero di saperti qui a rimuginare però non mi piaceva!" rispose Gidan sicuro: non doveva avere considerato l’ipotesi che quella non poteva essere una buona idea.

L’angioletto di Garnet divenne un pochino più insistente: le intenzioni di Gidan erano buone.
Peccato che non bastava così poco a rabbonire il diavoletto.

“Diciamo che ti annoiavi!" Rincarò Daga.
“Be’..Anche.. Ma che importa? Usciamo!" No, decisamente Gidan non riusciva a comprendere che le sue risposte avevano lo stesso effetto dell’olio su una fiamma.
La nota di rabbia di Garnet si trasformò in demoralizzazione “Lo vuoi capire che non posso? Tra poco arriveranno i partecipanti del Congresso e.."
“Smettila di chiamarli così!" Sbottò lui “Sai perfettamente chi verrà, non essere così formale."

A volte Gidan trovava insopportabile Daga: quel suo modo di vedere tutto nella prospettiva più seria e rigida gli dava i nervi, come l’aria distaccata che lei assumeva quando doveva affrontare cose.. be’ “faccende da monarca"!
“Non è un’occasione di piacere, Gidan! Dobbiamo parlare di cose serie!"
Ecco, cose serie! Sempre cose serie! Ormai era l’espressione preferita della ragazza!
Il programma delle udienze era una cosa seria..
Le discussioni su nuovi editti erano cose serie..
Sinceramente, il ladruncolo pensava che la regina vivesse in un bel mucchio di illusioni, come se tutto ciò che riguardasse i suoi compiti fosse sempre della massima importanza.
Era un’esagerazione: la gestione di un regno era fatta sia di cose importanti che di cose futili, ma era normale così; Cid non ne era forse la prova vivente? Il monarca di uno dei regni più importanti del continente, quindi pieno di impegni, aveva tutto il tempo che voleva per fare capatine più o meno lunghe nelle osterie a farsi amiche le cameriere!

“Lo so, ma non ne parlerai meglio anche se rimani qui da sola!"
Garnet gli voltò le spalle con aria offesa: possibile che non capiva?
Vedendola così, Gidan scavalcò la finestra. “Eddai, Daga.. Pensare troppo fa male." Disse in tono conciliante.
“Forse è vero che tendo a preoccuparmi troppo.. Davvero però, adesso non sono in vena." Rispose lei.
“E va bene..Ti lascerò sola." Rispose Gidan, un po’ triste, dirigendosi nuovamente verso la finestra.
“Ehi, aspetta un momento..Da dove esci?"
“Mi buttò giù dalla finestra.."
“Siamo in alto..Potresti farti male!"
“E che importa? Tanto hai le tue cose serie a cui pensare.."
Daga rivolse un’occhiataccia al biondino “Speri che ci creda?"
Gidan mostrò la sua espressione più mogia “Fai come ti pare.." disse, in tono spento.

La ragazza non gli diede la minima importanza, voltandosi di scatto; Gidan era sempre fin troppo disposto a dire cose eclatanti, tanto per attirare l’attenzione, ma non era da prendere sul serio. Nemmeno lui era così stupido da butt..
Voltandosi, Daga si accorse che il biondino non era più vicino al cornicione della finestra.
Si impose la calma; poteva essere passato dalla porta senza che lei se ne accorgesse..
No, non poteva essere, fuori c’era il cavaliere Adalberto Steiner e lei non sentiva nessun stridio di acciaio d’armatura, impegnata in un inseguimento del ladro che gli stava antipatico e che disturbava la sua amata regina.
Forse si era nascosto da qualche parte.. Ma dove poteva esserci un nascondiglio in quella stanza sobria e disadorna?
Mantenne la calma; possibile che era così stupido, da fare una cosa così stupida, in un momento così studipo?
Stava sragionando; la calma si dissolse del tutto, quando una vocina sottile, ma insistente, le dava risposta affermativa alla domanda assurda che si era posta.
Corse verso la finestra e si sporse quanto più potè, chiamando il ragazzo per nome..
All’improvviso si accorse che il davanzale era diviso a metà da un’appendice pelosa..
Una coda.
Quel pazzo si era appeso con la coda a testa in giù, mentre tra le meni teneva una di quelle funi disseminate di bandierine, che adornavano il castello nei giorni di festa.
Il ragazzo si tirò su con la coda, atterrando con i piedi sul davanzale di marmo. “Lo sapevo che avevi voglia di venire con me!" disse, con un sorriso tirato fino agli angoli estremi della bocca.
Avvolse la vita della ragazza con un braccio e la trascinò giù con lui.



***************

I raggi di sole penetravano dalla finestra e dardeggiarono sul metallo lucido dell’armatura, riflettendosi sui suoi grandi occhi gialli in riflessi abbaglianti che lo costrinsero a copririsi gli occhi.
“Sa, Sig. Vivi.." cominciò il corpulento omaccione, avvolto nelle piastre metalliche così completamente da lasciar intravedere solo la porzione del viso “Mi fa davvero piacere che lei sia venuto prima da noi."
Il bambino tolse la mano dagli occhi; non aveva lineamenti distinguibili, ma solo un globo oscuro come testa, su cui calzava un pesante cappello da mago, e da cui spiccavano gli occhi dorati, ma bastava quest’ultimo particolare a lasciar intendere che il commento del cavaliere gli aveva fatto piacere.
“G-grazie, signor Steiner!" rispose il piccolo Vivi, un po’ stentatamente come al solito, per colpa della sua timidezza, e sistemndosi il cappello “M-mi piace tantissimissimo q-questo posto!"
Aveva il modo di esprimere la gioia un po’ esagerato, tipico di tutti i bambini; notandolo, Steiner sorrise un po’, prima di ricordare che aveva il compito di vigilare costantemente, affinché nessuno (sudditi un po’ troppo zelanti, nobili alla ricerca di sostegno, ladri molestatori e quant’altro) turbassero la quiete della sua principes.. Regina (quando era sovrappensiero gli capitava ancora di sbagliare.. )
A Vivi stava molto simpatico il cavaliere e gli piaceva pure stare in sua compagnia; ne avevano passate tante insieme.. E poi amava anche stare con gli altri Plutò e condividere, grazie all’amicizia con Steiner, il loro cameratismo, seppur un minimo.
Gli piaceva trascorrere il tempo al villaggio dei Maghi Neri, suoi simili, chiacchierare con i genoma, in particolare con Mikoto, e gironzolare per la zona intorno a Toleno, dove aveva sempre vissuto..
Tuttavia stava molto bene anche ad Alexandria, non l’aveva detto tanto per dire.
Adorava sporgersi alla finestra e guardare il panorama della città, i bastioni di pietra del castello, la grande spada di abbagliante metallo, i due suoi amici che scivolavano allegramente su una fune delle bandierine verso la città..

?!?

Vivi non potè contenere un’esclamazione di sorpresa a quella vista, forse un po’ troppo forte, visto che il cavaliere si avvicinò a lui. “Tutto bene?" chiese, gentilmente.
“S-sì, tutto a posto." Rispose il maghetto; non era il caso di dire a Steiner quello che aveva visto.
Steiner aveva sempre avuto..come dire..una certa “antipatia" per Gidan; certo, con il tempo si era andata smussando, accompagnata da un certo rispetto che il cavaliere provava ora per il ladro dopo le numerose battaglie combattute assieme..
Il problema però era che i due rappresentavano due modi di vivere antitetici, caratteri completamente opposti, attitudini diverse; non c’era da sorprendersi dunque che Steiner comunque sopportasse molto a fatica la sua presenza, soprattutto quando andava a intromettersi nel suo lavoro di cavaliere o, peggio, nelle attività della sua protetta.
Quindi gli sembrò giusto dire “G-guardavo solo le nuvole riflesse nella lama



****************



“Hai visto? Non ci voleva niente!" esclamò Gidan, non appena toccato terra.
Il “viaggio" per Garnet non aveva avuto proprio effetti che si potessero definir “niente"; i capelli lunghi le ricadevano sul viso e sul corpo in una massa disordinata, irta di punte; il viso le si era arrossato, un po’ per la rabbia, un po’ per la sorpresa; i pizzi degli abiti si erano tutti sgualciti e la stoffa della giacca esibiva una piega, formatasi dallo stretto contatto del suo corpo con quello di Gidan; un bottone della camicia era saltato, formando una piccola scollatura in cui Gidan si stava insinuando con lo sguardo senza troppi complimenti.
“Ti posso assicurare che stai molto meglio così che tutta tirata come prima!" esclamò Gidan sorridente, abbracciandola.
Garnet gli scoccò un’occhiata furente, mentre sprimacciava la stoffa dell’abito, nel tentativo di ridargli una forma accettabile.
“Ti avevo detto.." cominciò lei, con tono rabbioso, “che avevo da fare!"
“Senti, è una magnifica giornata e stiamo insieme! Che vuoi di più?" chiese Gidan, con aria fintamente innocente, come se il problema non fosse lui, ma qualche altra cosa che esisteva solo nella mente della ragazza.
Di fronte a quell’atteggiamento, incredibilmente, Daga non sentì il bisogno di arrabbiarsi ulteriormente.
Forse aveva davvero bisogno di uscire.
Gidan le prese la mano e cominciò a camminare con lei per le strade della città, lastricate con pietre perfettamente liscie e senza imperfezione. “Questa è la città che hai ricostruito tu; dimostra di amarla una volta ogni tanto e goditela!" esclamò.
Daga sorrise e decise di godersi la giornata, dimenticando le sue preoccupazioni.



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Alexandria può sembrar piccola, ma non bisogna farsi ingannare. In realtà è una città immensa e neanche poi così elegante come si può pensare.
Ogni città ha la sua faccia bella, per ingannare chi vi arriva come turista, e la sua faccia brutta, per ricordare la cruda realtà a chi vi vive.
Alexandria non era un’eccezione.
La sua faccia bella era rappresentata dal castello, dalla piazza del mercato, dalle piccole taverne che servivano cocktail frivoli come il “Sospiro di regina".
Si doveva avere occhio per notare un vicoletto nascosto, davanti alla suddetta taverna, dove si poteva vedere finalmente la faccia brutta, fatta di stradine strette e poco raccomandabili, negozi di armi e merci rubate e bettole da quattro soldi, dove chi beveva, lo faceva per davvero, in bicchieri polverosi, di vetro o metallo, se il gestore aveva avuto troppe volte la possibilità di vederli usare come armi contudenti, senza ombrellini colorati o decorazioni da donnicciola.
Una di queste piccole locande era la preferita di Jack la Traversa, quando non aveva voglia di trattarsi bene e quando si trovava ad Alexandria.
L’insegna scrostata riferiva “Cruel jokes" come nome del locale, un punto di ritrovo per ricercati, tagliagole e, soprattutto, incalliti bari al gioco delle carte.
Appena entrato, Jack della Traversa vide una scena abbastanza usuale, ma che lo incuriosì: Filch, un cliente abituale del luogo, stava circuendo un uomo misterioso per farlo giocare a carte.
Filch era un uomo di corporatura massiccia, con abiti lisi da cui strabordava grasso e spuntavano manone con dita corte e tozze, più adatte alla violenza che a maneggiare fragili carte. Il capo taurino era completamente rasato, con occhietti porcini, un naso sgraziato e una bocca enorme, bene avvezza alle pinte di birra e alle porzioni abbondanti di cibo.
Jack lo conosceva bene; con quella corporatura appariva stupido, ma in realtà era un baro, furbo come una volpe e violento come un orso, con chi glielo faceva notare.
L’altro invece non faceva parte delle sue conoscenze, anche perché portava una mantella da viaggio, di quelle in ruvida tela marrone, che ricopriva completamente il suo sembiante.

“Dai, amico!" disse Filch con la sua voce alta e greve “Visto che sei nuovo di queste parti, facciamo una partita!"

L’uomo stava riflettendo; non aveva voglia di giocare e poi non aveva carte..
No, non era vero, ne aveva qualcuna, di cui un paio si sarebbe potuta definire preziosa.
Se ne ricordò solo in quel momento. Era stato per un po’ di tempo in una compagnia che amava particolarmente il gioco e uno di loro gliene aveva lasciate un po’.
Pensò che allora avrebbe potuto venderle, se solo se ne fosse ricordato, così avrebbe avuto qualche soldo e non sarebbe dovuto ritornare ad Alexandria.
Alla fine però anche lui aveva bisogno di un po’ d’azione; forse era per questo che era tornato.

“Va bene." Disse l’uomo; aveva una voce profonda, un po’ baritonale, anche se leggermente arrocchita, forse da troppe notti trascorse all’addiaccio.
Si alzò, rivelando una statura a dir poco fuori dal comune, si cacciò in una tasca, per prendere le carte, la mano, grande pure quella, pallida, con dita lunghe e spesse, tutte muscoli e nervi, e nocche callose.
Guardandolo sedersi al tavolo di Filch, Jack pensò di sentire in lui qualcosa di familiare e si avvicinò, sussurrandogli in un orecchio “Straniero, ti consiglio di non avere a che fare con Filch."
L’uomo si volse verso di lui; non sapeva bene nemmeno lui perché lo faceva, forse per la sorpresa di avere delle carte, ma comunque Quattromani non era nessuno per potergli dire cosa potesse fare.
“Ghilgamesh, non ti impicciare." Bisbigliò l’uomo, scoccandogli un’occhiata glaciale, che Jack vide a fatica attraverso il cappuccio.
Jack guardò l’uomo di traverso; come faceva a sapere il suo vero nome? L’aveva detto a pochissime persone in vita sua.
“Fai come ti pare." Gli ringhiò contro, maledicendosi per essersi interessato di un perfetto sconosciuto, ficcanaso e pure bastardo, visto che c’era.
Tuttavia non riuscì ad andarsene perché la sensazione di famigliarità non si era andata affatto scemando, anzi si era acuita, perciò rimase ad osservare Filch e l’uomo giocare.
La strategia di Filch era semplice ed elementare, ma efficace: piazzare carte forti, coperte da triangoli in più angolazioni, evitare i duelli di attacco, mangiando le carte dai lati senza triangoli, e concentrarsi su quelli difensivi, in modo tale da realizzare, con un po’ di fortuna, delle combo.
L’uomo invece sembrava giocare a casaccio, piazzando carte deboli in punti inutili, ogni tanto lasciandosele mangiare.
Jack aspettava il momento in cui Filch avrebbe usato le sue rinomate carte false; era questo il trucco: lasciare un minimo di vantaggio all’avversario, facendolo agire con leggerezza, per poi tirar fuori carte molto potenti, per lo più false, e vincere facilmente.
Mentre Filch stava perdendo una carta, Jack capiì che era quello il momento; al turno successivo il baro tirò fuori un’imitazione perfetta di una carta potente –bisognava ammettere che non era male come falsario- e girò quasi tutte le carte dello sconosciuto, a cui rimaneva una mossa.
Nonostante avessero scommesso una bella somma di denaro, l’uomo sembrava mantenere un cipiglio indifferente.
Tirò giù una carta che rappresentava un potente incantesimo, coperta di tringoli in tutte le sue parti; fu una combo spettacolare, che lo decretava vincitore.
Filch assunse l’espressione di chi aveva mangiato un limone e, senza dire una parola, scagliò un potente pugno allo sconosciuto, che però lo bloccò con una delle sue mani lunghe e spesse; erano mani da guerriero, Jack lo aveva pensato fin dal primo momento.

“Ho vinto." Disse in tono noncurante lo straniero.
Filch rispose assurdamente, tanto che Jack scoppiò a ridere.
“Hai barato!"



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“Ti va di andare a prendere qualcosa alla locanda?" chiese Gidan a Daga, mentre camminavano per la via principale; la ragazza cercava disperatamente di passare inosservata, ma non aveva niente per coprirsi il viso e quindi tutte le persone che incontravano le rivolgevano ossequosi cenni del capo o calorosi saluti.
“Va bene." Rispose, grata di quel poco di intimità che poteva offrire il locale nelle ore della piena mattinata, quando tutti erano al lavoro o a scuola.
Entrarono dentro e salutarono allegramente il gestore e sua moglie.
“Buongiorno Gidan! Ossequi Maestà." Salutò l’oste dal viso rubicondo, con una zazzera di capelli biondi che gli ricopriva fieramente la testa e gli occhi neri, simili a pozzi.
“Che vi offro?" chiese “Un “Sospiro di Regina"? Oggi costa la metà!"
Gidan rise “Lo offri senpre a metà prezzo! Dev’essere disgustoso!"
Anche l’oste rise; era abituato alle battute di spirito di Gidan e non si offese. “Criticone!" lo apostrofò “Sempre meglio della roba che si beve a Lindblum!"
“Be’, comunque io passo." Disse Daga, che non riteneva comunque opportuno bere qualcosa di pesante (Ok, divertirsi, ma non era il caso di ritornare al castello brilla) “Per me solo un succo di frutta."
“In arrivo!" esclamò l’oste “E per te, Gidan?"
“Ho troppa sete! Meglio una birra!" rispose lui.
L’oste cominciò ad armeggiare dietro, con delle bottiglie e, poco dopo, riemerse con un bicchiere di liquido colorato in una mano e nell’altra con un boccale di schiumosa bevanda ambrata.
Il vetro produsse un debole suono sbattendo sul legno del bancone, seguito dai ringraziamenti dei due clienti.
Il biondino tracannò un lungo sorso soddisfatto, mentre Daga chiacchierava con l’oste.
“Come mai non sei a teatro, oggi? Di solito qui c’è tua moglie.."
Mentre asciugava un bicchiere, l’oste rispose “Mia moglie sta facendo delle commissioni quindi la sostituisco. E poi oggi Carmen è molto nervosa, non è il caso di stare a teatro!"
Notando l’espressione interrogativa della ragazza, Gidan si intromise “Blank aveva detto a Carmen che sarebbe venuto un po’ prima a trovarla, ma lui non si è fatto vedere!"
Daga sorrise “Ah, adesso capisco!"
“Quella pazza si sta già sfogando con Rouel per questo, non ho voglia di essere un’altra vittima!" disse il gestore.
“Comunque dovrebbe arrivare oggi Blank!" disse Daga
“Infatti, non vorrei proprio essere nei suoi panni quando la vedrà!" continuò Gidan.
I tre scoppiarono a ridere, ma la loro allegria fu interrotta da un tonfo sordo proveniente dall’esterno, seguito da urla concitate “Una rissa! Una rissa!"
Gidan e Daga scattarono fuori, seguiti poco dall’oste e da un paio di clienti che bevevano caffè solitari in un paio di tavolini.
Facendosi largo tra un piccolo drappello di curiosi, videro due uomini che si fronteggiavano minacciosi: uno era un uomo molto alto, di cui però era impossibile distinguere altri connotati fisici, dato che era ricoperto da un mantello da viaggio; l’altro era un energumeno, dal viso paonazzo e l’espressione feroce.
“Ti farò pentire di essere venuto qui!" esclamò quest’ultimo, scrocchiandosi le nocche tra le mani in modo inquietante.
L’altro non rispose e rimase fermo, nella più cruda indifferenza.
“Bisogna fermarli!" disse Daga.
Non c’erano guardie intorno e la folla che li osservava sembrava sorda a quest’appello.
La ragazza cercò di lanciarsi in mezzo a loro, ma Gidan la fermò “Aspetta un attimo, quello è Filch."
“Sai chi è quell’energumeno?"
Gidan annuì. “Lo conosco bene. E’ un baro da quattro soldi che gira al “Cruel Joke", dall’altra parte della strada. Questa è uan semplice rissa tra furfanti."
“Ma qualcuno potrebbe farsi male." Continuò la ragazza, che però non potè fare niente perché la folla la bloccava.
In realtà anche Gidan sarebbe voluto intervenire, ma sapeva che cercare di fermarli avrebbe solo peggiorato le cose; meglio aspettare un attimo e, se le cose si fossero aggravate, cercare di far sgombrare più persone possibili, aspettando la guardia cittadina.
Intanto l’uomo con il mantello continuava a rimanere impassibile, mentre Filch imprecava orribilmente verso di lui.

“Parli molto.." disse alla fine lo sconosciuto.
Gidan ebbe un sussulto; era sicuro di aver già sentito quella voce, da qualche parte.
Filch ringhiò e si lanciò in avanti, tenendo tra le dita chiuse a pugno un oggetto scuro.
“Vigliacco, ha un’unghia nascosta! Attento!" esclamò Gidan.
L’uomo però rimase in piedi, con il cappuccio stracciato che rivelò quella che sembrava essere una fiamma scura.
“Buffone.." ghignò di rimando l’uomo.
Un balzo e un lampo d’acciaio tra le pieghe del mantello che andò in brandelli; questo fu sufficiente per far cadere Filch a terra come un masso.
I brandelli di stoffa si alzavano nel vento, tra la folla attonita dalla velocità dell’azione, rivelando l’aspetto dell’avversario di Filch.
Quella che sembrava una fiamma in realtà era solo una massa di folti capelli rosso scuro, lunghi e arricciati in maniera elaborata, come si usava fare in certi territori esotici, che gli nascondevano gli occhi e buona parte del viso, eccezion fatta per il naso aquilino, il mento appuntito, coperto da una barba rossiccia, e le orecchie a punta, perforate da grossi orecchini a cerchio dorati.
La pelle che spuntava dagli abiti era di un candore latteo e spiccava ancor di più in contrasto il nero gilet chiuso che portava, lasciandogli scoperto il petto quanto bastava per far scorgere un pendente a forma di corno e da cui spuntava un collo rialzato di camicia, ricamato con strani simboli tribali.
Le braccia erano muscolose e un poco sproporzionate, rispetto alle mani innaturalmente grandi, segnate da tatuaggi rettiliformi e coperte da cinghie di cuoio ai lati delle spalle e da copriavambracci neri.
Le gambe, massicce come tronchi di quercia, erano cinte da pantaloni verde scuro, tenuti su da una cintura tutta frange e inserti metallici, con calzature che sembravano un ammasso di striscie di cuoio unite insieme.
La folla era rimasta attonita nel guardarlo, ma Gidan e Daga si erano scambiati un’occhiata sorpresa.

“E’ Amarant!" esclamò Gidan.

Finita la rissa, la folla stava cominciando a scemare, permettendo così agevolmente il passaggio ai due ragazzi.
“Amarant!" chiamò il ladro, in direzione dell’uomo.
Amarant si girò, riconoscendo immediatamente la voce squillante dell’antico rivale.
“Ciao." Salutò senza calore. Non sapeva se essere contento di vedere così presto persone a lui note.
Era certo che le avrebbe prima o poi incontrate, ma non era convinto, per lo meno non ancora, del motivo per cui era tornato ad Alexandria, dopo un anno che non si era mai fatto vedere.
“Mi fa molto piacere vederti qui, Amarant!" salutò Daga; un tempo la regina aveva avuto parecchie riserve nei riguardi dell’uomo salamandra, ma col tempo aveva imparato ad apprezzare il suo valore, sebbene il suo carattere le rendesse un autentico enigma per lei.
“Che fai qui?" domandò Gidan calorosamente; nutriva una certa simpatia per lui, nonostante tutto.
Amarant tirò fuori dalla tasca un volantino scritto in caratteri alexandrini e lo porse alla regina. “Hai messo tu quest’annuncio, no?"
Garnet annuì “Sì. Ultimamente la guardia cittadina è molto impegnata nella zona delle mura e del castello.. Ci servono quindi mercenari per combattere i mostri nella zona circostante."
“Mostri della nebbia, vero?" chiese Amarant.
“Sì, purtroppo. Non si capisce però da dove vengono, per questo ho ritenuto di dover bandire quel proclama." Rispose lei.
“Posso unirmi." Interloquì la salamandra.
“Ti ringrazio, sarai ricompensato." Continuò Garnet, ora consapevole del fatto che Amarant era ritornato da loro solo perché gli serviva un lavoro.
Gidan rimase ad ascoltarli, prima di dire “Sei tornato giusto in tempo. Tra poco arriveranno anche gli altri."
Amarant lo fissò con aria interrogativa, mentre Daga esclamava “E’ vero! E’ tardissimo!" e scappò via.
“Aspetta Daga..Uff!" Gidan era deluso; tanta fatica per farla uscire e stare con lei per vedere una stupida rissa!
“Gidan, chi sono gli “altri"? chiese la salamadra con una punta di inquietudine, temendo di conoscere la risposta.
In quel momento, il sole si oscurò. Non era opera di uan nuvola, però, ma di una imponente macchina volante, dalle possenti eliche e la carena a cuneo.
I bambini, usciti dalla scuola, li inseguivano con lo sguardo, urlando “Gli idrovolanti!", dato che non era solo, ma era accompagnato da altri due suoi simili.
“Eccoli gli altri." disse e cominciò a dirigersi verso il castello, facendosi seguire da Amarant.

[continua..]



Fine

 

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