PROMISE OF A LIFETIME
«Claire…!».
Corsi lungo il viale abbracciato dagli alberi in fiore, il fiato corto e lo sguardo fisso sulla figura a pochi metri da me. Volevo urlarle di fermarsi, implorarla di tornare indietro.
E spesso, quando alla fine raggiungiamo ciò che stavamo cercando, ci accorgiamo che in realtà abbiamo sbagliato strada. Completamente.
Lei si voltò. Alcune ciocche dei lunghi capelli sfuggivano dalla coda che li teneva legati, andando a lambire lievemente il collo e il viso sottile.
Non mosse un passo per venirmi incontro, aspettando che fossi io a raggiungerla; mi fermai davanti a lei respirando a fatica, l’angoscia perfettamente leggibile nei miei occhi.
«Lenne…» sibilò ricambiando il mio sguardo.
Vidi perfettamente il suo viso – diafano per la
fame – rigato da pericolose venature che indicavano il suo stato precario; le occhiaie, le iridi che da verde smeraldo si erano tinte di nero…
Il tempo era scaduto. La mia promessa infranta.
La strada che avremmo dovuto percorrere si rivela in realtà molto più lunga e impervia, molto più tortuosa, piena di ostacoli… ma è in quella strada quasi impraticabile che impariamo davvero a conoscere noi stessi.
«Vieni con me» mormorai.
Sorrise la ragazza. Un sorriso strano, malsano, perverso.
«Li ho uccisi» sussurrò. Rimasi immobile a guardarla. «Tre civili, persone innocenti».
«Ho visto…».
Rise piano – forse per via delle mie risposte semplicistiche, forse perché stava perdendo del tutto il senno – osservandosi le mani sporche di sangue. «Non ti disgusto?».
«Io…».
Non mi concesse di proseguire: me la trovai addosso e fu solo per mero istinto che riuscii a evitare la sua morsa, rotolando di lato e rialzandomi subito dopo; la seconda volta fui meno fortunata, quattro profondi solchi si aprirono sull’avambraccio sinistro.
«Ascoltami!» gridai, stringendo la ferita con l’altra mano.
Perché ci affanniamo tanto a percorrere queste strade, cercando disperatamente quello che ci appartiene? Ostinandoci su percorsi forzati, nonostante sappiamo bene che il più delle volte ci conducono a vicoli ciechi o profondi strapiombi.
Pienamente consci che la riuscita del nostro viaggio non è affatto garantita.
Per un attimo la vidi volgere lo sguardo altrove, oltre le cime degli alberi: un tempo che mi parve interminabile. Infine si volse nuovamente, negli occhi lo stesso vuoto che già una volta avevo riscontrato… e che voleva dire una cosa sola.
Ma come potevo rivolgere le mie spade su di lei, sulla giovane con cui mi ero esercitata innumerevoli volte e con la quale avevo condiviso tutto?
Non ci basta mai, il tempo che ci trascina nel suo flutto.
È lui che guarda scorrere noi.
Mi ritrovai a terra schiacciata dalla forza della ragazza, che mi teneva premute le braccia contro il suolo tanto da rischiare di spezzarmele; sentivo il suo respiro farsi sempre più affannoso, quasi volesse preannunciarmi cosa sarebbe successo di lì a poco.
Tuttavia non potevo né volevo farle del male e speravo disperatamente che riuscisse a tornare in sé.
«Claire!» gridai cercando di liberarmi da quello scontro di forza a senso unico. «Guardami, sono io!».
Esitò un momento lei, come se effettivamente mi riconoscesse.
In realtà eluse facilmente i miei deboli tentativi di respingerla e sollevò il braccio destro, irrigidendo le dita sino a farle somigliare ad artigli.
«Claire!» la chiamai nuovamente, senza arrendermi.
Ancora una volta parve reagire, esitando a vibrare il colpo di grazia.
Rialzato lo sguardo, rividi per un attimo la luce tornare ad albergare nei suoi occhi.
«Le… Lenne…» balbettò come un malato al suo ultimo respiro, scostandosi e dandomi modo di risollevarmi. Resa cieca dalla speranza, mi avvicinai.
Il tempo che sviluppa cambiamenti. Il tempo che ci trascina verso fine o inizio.
Prima ancora di poter muovere il terzo passo, l’istinto ebbe la meglio e la giovane, scagliatasi in avanti, diresse un colpo esattamente al centro del petto. Fu solo per vero miracolo – forse per il suo estremo tentativo di reagire a quella che ormai era la sua natura – che gli artigli, anziché affondare nel torace, procurarono una ferita non particolarmente seria ma abbastanza grave da indebolirmi e rendermi ulteriormente inerme.
Gridai per il dolore.
Questa volta era davvero in condizioni di poter chiudere la faccenda e sembrava determinata a farlo se non che, per la terza volta, esitò rimanendo immobile come una statua di sale.
Forse fu la vista di me ridotta in quello stato, forse la consapevolezza interiore di esserne la responsabile, forse la sua coscienza… fatto sta che i suoi occhi di nuovo si accesero di vita e da quel momento fu come se due entità stessero lottando per il controllo dello stesso corpo.
Sempre avanti.
Indietro non si torna. Mai.
I movimenti si fecero meccanici, quasi spasmodici e se una gamba provava ad avanzare, l’altra cercava di far perdere l’equilibrio; se una mano cercava di attaccare, l’altra l’afferrava.
Come una bambola nelle mani di una bambina, la ragazza cominciò a strattonarsi e dimenarsi in tutte le direzioni urlando come una dannata, arrivando persino a lacerarsi le vesti.
Atterrita e sconcertata, la guardai contorcersi in preda alla più terribile agonia.
Finalmente parve tornare padrona di sé ma dalla paralisi che sembrava aver colpito tutto il suo corpo, era evidente che non lo sarebbe rimasta per molto tempo e lo sguardo che mi rivolse, così determinato e insieme triste, mi fece avvertire un terribile colpo al cuore.
«Claire…» ripetei per l’ennesima volta.
«Presto!» disse lei. «Uccidimi!».
Attonita, non volli credere di averla sentita pronunciare proprio quella parola.
«Che cos’hai detto?!».
«E’ l’unico modo per salvarmi e tu lo sai. Non c’è cura per ciò che sono diventata e solo con la morte potrò trovare liberazione!».
«Non puoi chiedermi questo… non puoi…».
«Lenne!» gridò con rabbia ma piangendo nel contempo. «Ti prego! Non voglio passare la mia esistenza come un mostro! Solo tu puoi aiutarmi in questo momento!».
Scossi la testa.
«Fai presto! Non so per quanto ancora potrò resistere!».
Non volevo credere che stesse accadendo davvero. Dovevo togliere la vita a qualcuno.
Dovevo toglierla a
lei.
È quando la nostra mente si trova nel bivio della coscienza e si hanno due sole possibili strade, quella giusta e quella sbagliata, che iniziamo a sentirci persi; non possiamo pretendere di affidarci agli altri per il resto dei nostri giorni.
Quando arriviamo a quell’incrocio, la scelta è solo nostra.
Non c’è compromesso, non si possono mischiare le due facce. Ci sono solo il bene e il male.
Per quanto la decisione possa sembrare scontata, in realtà non lo è. Tutti credono di scegliere il bene ma in pochi sanno riconoscerlo.
Una parte capiva e sapeva essere quello che la giovane voleva, come lei stessa stava dicendo in quel momento, oltre alla cosa più giusta da fare; malgrado ciò l’altra parte, quella guidata dal cuore, non voleva né poteva accettare una cosa del genere.
In quella, nuvole minacciose coprirono la luna e un violento acquazzone si abbatté attorno.
Imprevedibile è il potere del tempo.
Stravolge la nostra esistenza con il suo corso, ci mostra la verità, le menzogne, i segreti.
Sperduta come un corpo senz’anima, portai la mano destra alla cintola: le dita strinsero l’elsa di uno dei pugnali.
Claire rimase immobile, in attesa del colpo di grazia.
Passarono alcuni interminabili secondi. La mano tremava mentre la vista si faceva sempre più vacua a causa del dolore e della pioggia.
«No…» dissi abbassando il braccio teso per scagliare. «Io… non ci riesco…».
«Lenne…» rispose mentre le lacrime si confondevano con l’acqua sul suo volto. «Non puoi farmi questo… Ti prego, liberami…».
Stavo soffrendo quanto e forse più di lei, sforzandomi di trattenere il pianto.
Sentivo che sarei morta prima di prendere una decisione.
Se ci fosse dunque offerta l’opportunità, saremmo sempre in grado di fare la scelta giusta?
Possiamo cercare di non lasciarci trascinare ma alla fine le cose non vanno mai come speriamo.
Fu il destino a scegliere per me.
Improvvisamente, senza alcun segnale d’allarme, l’irrazionalità ebbe di nuovo la meglio e la giovane si lanciò all’attacco; fulminea, in un gesto dettato dal puro istinto, scattai in avanti impugnando Ryusei.
La lama, quasi invisibile, fendette le gocce d’acqua al proprio passaggio e andò a conficcarsi con forza nel torace della ragazza, trapassandolo e uscendo dalla schiena; per il contraccolpo ella sussultò e un getto di sangue le fluì dalla bocca.
Inorridita, estrassi l’arma.
Claire cadde con un tonfo sordo sulla terra bagnata.
Lasciando la presa sulla spada mi abbandonai sulle ginocchia, accanto a lei.
Passato qualche secondo, la osservai riaprire gli occhi: la luce era tornata, questa volta completamente ma stava già spegnendosi, lasciando inesorabilmente spazio al buio senza fine della morte.
Batté un paio di volte le palpebre per mettere meglio a fuoco e inclinò lievemente la testa.
Mosse le labbra per formulare silenziosamente il mio nome e la sua espressione sfigurata dal dolore si addolcì. Sapevo di avere pochi minuti prima che si arrendesse al gelo della morte.
Che cosa avrei potuto dirle fintantoché avevo la possibilità di farlo?
C’era così tanto… ma non ne avevo il tempo.
Scusarmi, probabilmente. Per cosa?
Per il mio fallimento, per quello verso cui eravamo state condotte.
Per tutto.
Fugge velocemente, il tempo.
Corre e nemmeno ce ne rendiamo conto: corre come i pensieri, liberi e confusi ma tutti con un senso.
«Mi… mi dispiace…» dissi, la voce rotta da lacrime che ancora si rifiutavano di uscire. «Mi dispiace…».
Era colpa mia.
Ero
io la causa della sua sofferenza.
«Tu devi...».
Un’improvvisa fitta spezzò le parole. I lineamenti si contrassero in una smorfia di dolore.
Mi piegai verso il suo corpo macchiato di sangue.
«Tu devi…?» ripetei annuendo debolmente, inducendola a continuare senza rendermene conto.
Lei lottò per raccogliere un po’ di energie, ogni frammento che poteva permettersi e sollevò a fatica il braccio destro, sfiorandomi la guancia con le dita; capendo la muta richiesta dietro quel gesto, chinai la testa sino a sfiorarle il petto con la fronte.
Sentii la sua mano insinuarsi nei miei capelli ormai fradici, scompigliarli in quello che voleva essere un gesto rassicurante. Mi tenne stretta sé finché le forze glielo permisero.
No, era troppo simile a
quella volta. Troppo.
Solo che in questo caso l’assassina ero io. Erano
mie le mani macchiate del
suo sangue.
«I momenti che ho passato con te…» mormorò lei. «I momenti che
abbiamo trascorso con te… sono stati i più belli che… avessimo mai potuto vivere…».
Non appena quelle ultime parole lasciarono le sue labbra, il braccio della giovane scivolò debolmente al suo fianco, sul suolo bagnato della pianura.
Un brivido lungo e doloroso attraversò le membra stanche, causandole un lamento strozzato che infranse la curva serena delle sue labbra. Mi sollevai lentamente – rivoli di sangue lungo il volto – e quando le feci, lei poté avvertire parte della pressione sollevarsi dal torace, conforto da un peso che pareva più emotivo che fisico.
La vidi spostare la propria attenzione altrove, seguire la linea del suo braccio destro sino alla presenza di Ryusei che giaceva lì accanto. Non fu altro se non la semplice volontà che le permise di tendersi, afferrare la spada e sollevarla per porgermela.
Confusa, non compresi il perché di quel gesto.
Voleva che capissi. Che accettassi.
Come avrei potuto?
Esitai, incerta, eppure dopo un istante cercai l'elsa.
Le dita tremani salirono lentamente ad afferrarne l'estremità e la giovane me la spinse tra le mani in un muto incoraggiamento; in silenzio alzai gli occhi, parzialmente oscurati da alcuni ciuffi gocciolanti, incrociando quelli chiari di lei.
Mi guardava e nel suo sguardo c’era tutto il mondo. Tutta la vita: la mia, la
nostra.
La vita che avremmo potuto avere assieme e invece, per un capriccio del destino, ci era stata negata;
Accarezzai il suo viso con la mano libera, riuscendo quasi a sentire il suo cuore rallentare la corsa frenetica, procedendo imperterrito verso gli ultimi battiti.
Schiusi poi le labbra che sapevano ora di sangue, le iridi si tinsero di tristezza.
«Grazie…» fu tutto quello che riuscii a dire. «Per tutto».
Claire annuì con lentezza, troppo debole per pronunciare altre parole: certa che avessi capito, lasciò che gli ultimi residui di energia l'abbandonassero. Rimasi sorpresa dal suo sguardo sereno, non più agonizzante, e dal sorriso che delineò la sua bocca mentre abbassava le palpebre.
Accompagnati da un ultimo respiro, gli occhi si chiusero lentamente, senza dar mostra di alcuno sforzo o dolore.
Ma cosa ci rimane quando si ferma?
Quando anche l’ultimo granello della clessidra è caduto?
Immobile come una statua, rimasi a fissarla aspettando che li riaprisse, nelle orecchie nulla di più che un leggero ronzio; tutto aveva perso significato.
Non era successo.
Non poteva essere successo.
Non
doveva essere successo.
Restai lì accanto a lei senza il coraggio di muovermi, disperatamente sola.
Guardai poi quel corpo abbandonato a terra: il suo petto non si muoveva, i suoi occhi non mi guardavano con dolcezza, non mi sorrideva come solo lei sapeva fare, non sentivo la sua voce chiamare il mio nome.
Ancora non capivo, mi
rifiutavo di capire cosa stesse succedendo.
Mi sembrava di essere dentro a una semplice storia raccontata in un libro: non ero io quella lì, non era Claire che si trovava distesa priva di vita al suolo.
Che cosa succede quando tutto intorno perde colore?
Mi guardai le mani, odiandomi per ciò che avevo fatto.
Avevo ucciso…
Avevo ucciso chi più mi era caro…
Il suo sangue mi macchiava le mani…
Ero responsabile della sua morte…
Le avevo stroncato la vita con troppa facilità…
Non avevo pensato, l'avevo uccisa… anche se solo per salvarmi.
Anche se si trattava della mia vita…
Non riuscivo a credere di averlo davvero fatto…
Mi maledii con tutta la mia anima, sperai di morire, di sprofondare nella terra e perdermi nella tranquillità del niente.
Il sangue macchiava gli abiti, le dita, il volto, i capelli, le labbra… Persino lo sguardo ne era intriso e mi mostrava una visione distorta di quello che c’era attorno.
Rosso.
L’unico colore che i miei occhi coglievano, quasi fosse il solo presente e tutto il resto si fosse spento in un mare grigio, piatto, sfocato.
Rosso.
Come un peccato del passato, una colpa da dimenticare.
Lacrime che si erano fermate nei miei occhi troppo a lungo finalmente iniziarono a scorrere, taglienti come lame, sebbene la pioggia le nascondesse alla vista.
Troppe emozioni che non riuscivo a capire stavano affiorando dentro di me.
Sollevai la testa; ansimavo come se mi mancasse l’aria, il cuore batteva confusamente nel petto mentre osservavo il cielo tingersi di una nuova alba.
Per un istante rimasi immobile, senza respirare né reagire in alcun modo.
Nella mia mente attonita si susseguirono, rapide, immagini diverse.
Tutto però svanì e un feroce impeto di dolore mi riempì il petto; non all’improvviso ma lentamente, come acqua gelida che cola in un vaso.
Un dolore annunciato. Non per questo meno straziante.
Quante volte abbiamo visto noi stessi, per scelta o costrizione, combattere una guerra tra due lati?
Tra il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, la salvezza o la dannazione?
Siamo davvero abbastanza forti da sopportarne le conseguenze?
I pugni si strinsero fino allo spasmo e la voce trovò finalmente la via nella gola.
Urlai, urlai e non potei fare altro.
Urlai tutto il mio dolore, la mia rabbia, la mia disperazione.
Urlai a una persona che non poteva più sentirmi.
Sembrava quasi che tutta la sofferenza racchiusa nel cuore si fosse trasformata in un male fisico e non riuscissi a sopportarlo.
La pioggia gelida pungeva gli occhi, come se il cielo stesse piangendo con me… come se sapesse che ero di nuovo sola. Le gocce piano piano scendevano lungo il viso, inzuppando i capelli.
Cadevano fin nella schiena, impregnando i vestiti. Sfioravano le labbra scendendo lungo il collo come una carezza gentile.
Mi aveva dato fiducia.
Una fiducia che avevo tradito. Una fiducia che non meritavo.
L’avevo lasciata sola.
Contro la mia volontà, d’accordo ma l’avevo fatto e nulla avrebbe mai potuto lenire un simile dolore.
Chiusi gli occhi cercando di cancellare tutto, ma vedevo continuamente il destino che mi sorrideva beffardo, pieno di sé per la vittoria che aveva ottenuto.
Avrei voluto aiutarla.
Avrei voluto salvarla.
Avrei voluto vederla sorridere.
Voglio ancora vederti sorridere!
Bramavo una ragione per continuare a credere nei ricordi che mi venivano strappati via; non riuscivo nemmeno a esprimere il bisogno che avevo di ribellarmi a quella tortura.
Vivere per entrambi… Non volevo una vita senza la loro presenza, perché non potevo considerarla vita.
Come avrei potuto, se loro erano tutto per me?
Come avrei fatto a vivere se in loro era racchiusa tutta la mia esistenza?
Fine e inizio non sono altro che due facce della stessa medaglia. Come giorno e notte.
Vicini, eppure così lontani.
* * * * *
A volte i nostri ricordi sono così forti e radicati in noi che diventano quasi una minaccia per la nostra mente.
La fissai quasi con apatia, come se fosse qualcosa che non conoscevo, qualcosa che non apparteneva alla mia vita: lentamente la sua immagine rievocò nitido ogni frammento del nostro scontro, quasi lo stessi rivivendo una seconda volta.
Ricordavo con precisione i movimenti, le parole… tutto.
Ogni suo minimo cambio d’espressione – persino il meno evidente – mi aveva comunicato più di quanto avessero fatto le parole stesse; avevo capito che, nonostante tutto, ancora mi cercava.
Dicono che gli occhi siano lo specchio dell’anima… ma cosa poteva aver visto lei nei miei, che nulla riflettevano?
Senza permetterle di reagire allungai un braccio e la trassi in avanti, stringendola a me con forza; dapprima s’irrigidì, forse sorpresa, ma alla fine percepii i muscoli della schiena rilassarsi sotto le mie dita.
Appoggiai il viso nell’incavo tra collo e spalla della giovane, che sussultò nel sentirmi tremare.
Mi chiamò con fare incerto e tutto quello che ricevette in risposta fu silenzio.
Avvicinai la bocca al suo orecchio: solo allora si accorse che stavo ridendo.
«Era questo che cercavi da me?» sussurrai.
Si scostò nell’esatto momento in cui la spinsi via; osservai il suo sguardo nel quale si alternavano rabbia, dolore e disgusto, incrociando le braccia al petto.
«Mi fai schifo» disse, controllando a stento il tono di voce.
«Mi dispiace per te» risposi appoggiandomi alla parete, le labbra incurvate in un odioso sorriso.
La sentii distintamente trattenere il respiro prima che accorciasse con poche e rapide falcate la già breve distanza che ci separava.
Il manrovescio mi raggiunse subito dopo, facendomi voltare bruscamente il viso.
Quando tornai a fissarla, vidi che aveva ancora il braccio fermo nel gesto appena compiuto.
«Sei un filo scontata» dissi senza smettere di sorridere.
La sua espressione si fece, se possibile, ancora più gelida. «Avrei dovuto davvero ammazzarti, ieri».
«Parole vuote, finché non le metti in pratica».
«Non meriti così tanto tempo».
La guardai, piegando leggermente la testa. Sì,
avevo colto una lieve incertezza nella sua voce. «Chiedimi perché non ti sto dando retta? Ah già, non è un problema mio».
La sorpassai senza aggiungere altro.
«I momenti che ho passato con te… I momenti che abbiamo trascorso con te… sono stati i più belli che… avessimo mai potuto vivere…».
Strinsi i pugni.
«Che senso ha affezionarsi alle persone, se poi queste – in un modo o nell'altro – ti vengono portate via?» sussurrai, incurante del fatto che potesse sentirmi o meno. «Perché farsi illusioni, se poi bisogna sempre ricominciare da soli? A questo punto, meglio esserlo sin da subito: non vivendo di false speranze, le ferite si rimarginano prima».