Premessa. Trattasi di post lungo e pure tanto. Siete più che legittimati a ignorarlo, leggerlo saltando cinque righe alla volta o tenerlo come lettura estiva sotto l'ombrellone. Anche se è passato più di un anno, ho preferito riallacciarmi al post di Moceton come se fosse stato scritto ieri e dare un senso a quanto fatto finora portando a quella che potrebbe essere (finalmente) l'ultima parentesi con il Macellaio - motivo per cui forse mi ha preso quasi due mesi. Non sapendo se e chi abbia voglia di essere ancora attivo, ho direttamente menzionato i più probabili ma siamo tutti coinvolti. Come la Marvel, rimanete in sala dopo i titoli di coda per eventuali chiarimenti.
Le parole si strozzano in gola all'operatore, quando l'accetta gli apre il cranio come un frutto maturo; un suono grottesco, molliccio, accompagna gli schizzi di sangue che macchiano parte dello schermo, poi rumore di passi e una figura che divelle l'arma dal cadavere, entrando alla fine nel suo campo visivo.
«Buonasera, Philip.» la voce del Macellaio è sottile quanto una lama, altrettanto tagliente. Accenna un inchino, gli occhi gelidi e fissi dei serpenti. Il preside non lo vorrebbe ma avverte il terrore montare onda dopo onda - i cerchi lenti di una risacca pericolosa. «È passato più di un mese. Non ti sono mancato?»
«Aspettavo uscissi dal buco in cui ti sei rintanato e ti mostrassi per lo scarafaggio che sei, Konzen.» A dispetto della paura che gli morde le viscere, Philip non arretra, ne sostiene lo sguardo - un blu limpido che non è mai cambiato in tutti quegli anni, dopo le troppe cicatrici, gli affetti diventati ormai un ricordo.
L'uomo ride e non per posa: pare proprio divertito.
«Curioso, detto da chi ha portato un intero Garden nello spazio pur di non farsi trovare. Lo riconosco, pensavo che voi SeeD foste soltanto una grottesca parodia militare e invece siete addirittura capaci di elaborare discrete strategie. Sono davvero colpito.»
Il preside serra le labbra, incassa il colpo, tace; non è sicuro di avere da replicare, perché uno dei punti forti di Konzen è proprio quello. Il carisma perverso del leader: sa sempre cosa dire e il modo migliore per farlo, affondando con la protervia del predatore. L'altro non sembra turbato dal suo silenzio. Scosta il cadavere dalla sedia, si accomoda e sospira, le mani giunte davanti a sé - piacere? Soddisfazione?
«Se arrivi a farti vedere di persona, devo ipotizzare che le tue preziose fenici siano un lontano ricordo.»
«Saperlo non ti farà vincere questa guerra, né darà pace alle vittime che non hai saputo salvare.» Non è una risposta, ma uno schiaffo: nelle intenzioni se non altro, in una voce quieta ma insidiosa, le parole di Konzen gli grandinano addosso come un'accusa.
Philip annaspa perché quella del Macellaio non è la sola verità, eppure nemmeno può dirla menzogna. È, in fondo, ciò che la polvere risalita dalle macerie del Garden Supremo ha svelato a tutti: un orizzonte senza angoli netti né confini, un limite grigio oltre il quale è facile perdersi. Perdere ogni cosa. Vacilla, il preside, ma non è da solo. Leon è una presenza solida al suo fianco, un uomo dalle molte maschere che soprattutto sa quando indossare quella giusta; avverte sulla nuca lo sguardo tranquillo di Moceton, quello penetrante di Lenne appoggiata al muro con le braccia conserte al petto; sull'avambraccio le dita di Edith si appoggiano con finta casualità, quasi un inciampo mentre annuisce appena, perché la lealtà del soldato si respira nei gesti anziché nelle parole. I capelli di Abi ondeggiano sibilanti, quello di Matt è il basso ruggito del drago che riposa nel suo cuore. Uno dopo l'altro, i SeeD si stringono attorno a lui, lo fanno senza muoversi davvero, una complicità che nasce da motivi diversi ma volta a un solo obiettivo.
Lo sguardo di Philip è di nuovo risoluto, perché nel momento in cui domandi all'istinto di guidare le tue dita sulla scacchiera, devi accettare l'idea di trovarti all'improvviso circondato e spaesato, che se accetti la sfida devi essere pronto a giocare - a farti male; non devi però mai scordare che persino gli scacchi pretendono l'azzardo e non puoi vincere la guerra se per ogni pezzo mosso sfiori la mano del nemico.
«Immagino tu non sia tipo da lasciarti condizionare dalle apparenze, Konzen.» risponde, calmo. «Non è nemmeno una mia abitudine. Macellaio è il nome che ti dai per illuderti di essere diverso dalla bestia che sei, come chiunque di noi. Fotti meglio e prima degli altri, te lo concedo, ma di superiore in te non c'è nulla. Poche lettere sgualcite sono solamente il rifugio d'un folle e un codardo assetato di sangue.»
Cain sogghigna. «Bella stoccata: se quello str***o fosse capace di impallidire, adesso sarebbe livido.»
Già,
pensa Philip. Livido e pieno di rabbia omicida.
«Temevo di essermi tratto in inganno.» sussurra. È lontano anni luce, eppure il SeeD lo sente addosso come un'oscura maledizione. «Invece sei talmente idiota da blandire il fuoco dopo un bagno di pece. Sono stanco», aggiunge e pare sul serio un sibilo, «di parlare, né vedo interlocutori alla mia altezza.»
«Cosa ne dici di combattere, allora?» ringhia Philip. «Vieni allo scoperto e mostra quello che sai fare.»
Un sorriso tetro sfregia le labbra del Macellaio e la pupilla si allarga, dandogli un aspetto allucinato ma al contempo perfettamente consapevole. «Perché? Non ne ho certo bisogno per ammazzarvi tutti. Hai giocato in difesa troppo a lungo, Philip, è tempo per te di fare i conti con una strategia sbagliata.» Mima la sua mossa: il nero si muove e azzanna il bianco.
Uno scossone scuote il Garden dalle fondamenta. Il preside barcolla, si regge in piedi, cerca gli occhi di Leon, una rassicurazione che non arriva. L'uomo digrigna i denti, passa da uno schermo olografico a un altro mentre i sistemi di allarme iniziano a urlare.
«I cristalli.» mormora attonito. «Hanno superato la temperatura massima, né accennano a rallentare.»
Egil scatta in piedi, esce correndo dalla stanza, con lui Cain, Moceton e Winifred. Il vicepreside mastica una bestemmia in cui Lenne riesce a riconoscere le parole "manovra d'emergenza", poi si muove verso la sala comandi seguito a ruota da Edith. Elza, Sky e Brian reagiscono all'unisono, si dirigono al centro di sicurezza. Matt, Abi e i SeeD rimasti si dividono il perimetro del Garden per assicurarsi che nessuno resti bloccato al di là delle paratie una volta chiuse.
«Tu non vai?» le domanda Philip senza guardarla.
«Qualcuno deve rimanere con il capitano mentre la nave affonda. Lo Zoolab è un mortorio comunque.»
«Passi troppo tempo con Abi. Non sei divertente.»
«Non volevo esserlo.» Lenne accenna con la testa al monitor, al quale il Macellaio è ancora connesso.
Il preside ne cerca lo sguardo. Le dita, strette in un pugno, graffiano fino a ferire la carne. «Konzen...»
«Tutti sono servi del Macellaio, Philip.» Il suo tono è accomodante. «Credevi davvero che le modifiche al tuo Garden sarebbero passate inosservate, o di essere intoccabile solo perché a Esthar? Hai voluto spostare la guerra altrove esponendo la regina e di fronte a un'apertura simile, basta un solo pedone.»
Stringe i denti. Respira. Conta - non è sufficiente.
«La tattica non si addice alla gioventù tanto quanto la presunzione di conoscere nell'intimo il nemico e sono proprio gli avventati come te, Philip, a portare alla rovina chiunque li circondi.» Konzen ride e non serve altro a ricordargli come sia meglio un pugno o uno schiaffo: la memoria della pelle è più fragile di quella dell'orgoglio. «Divide et impera. Quando il tuo pilota avrà concluso la manovra d'emergenza, sarete soltanto granelli di polvere alla mercé di un mondo in rovina. Manomettere il tuo Garden era la prima cifra di un'equazione più articolata e perfetta nella sua logica. Perché credi abbia tardato tanto?»
«Lascialo parlare.» mormora Lenne. «Lo hai punto sul vivo, non è così lucido da sapersi controllare.»
Nemmeno lei, però, è preparata alle immagini che si mostrano sullo schermo. Un uomo si sposta sul lato destro di un marciapiede, dondola in avanti. Si gratta il fianco sotto la maglietta rossa, fiuta l'aria. Socchiude la bocca umettando le labbra spaccate, asciutte di parole che non siano vaghi grugniti. Una ragazza, simile a lui nelle movenze, gli sfiora le dita emettendo un gemito gutturale. L'uomo solleva un sopracciglio, la prende per le spalle scagliandola di peso in mezzo alla strada, ringhia, le salta addosso e le sfonda il cranio sul cemento, lasciandola poi lì, una girandola di ossa e sangue. Schiocca la lingua contro il palato, inspira e all'improvviso, senza una ragione apparente, si artiglia il volto con le unghie, scava mentre un ruggito animale sgorga dalla gola. Scuote la testa, crolla in ginocchio, grida, preda di un tormento noto solamente a lui. L'inquadratura si allarga, Lenne e Philip riconoscono le vie di Deling City e l'infezione che la sta divorando. Preda di una rabbia bestiale, gli abitanti di aggirano sofferenti e feroci lungo le strade, aggrediscono qualsiasi cosa non somigli loro, trovando nella violenza una breve tregua alla loro angoscia. Il preside arretra, pallido.
«La mente umana è complessa ma incredibilmente fragile: basta un nulla a polverizzarne le certezze, a renderla schiava.» La voce di Konzen accompagna le immagini che si susseguono una dopo l'altra, in una giostra di pazzia e morte. Perché essere il più forte, quando puoi essere il più crudele? È quella la vera essenza del Macellaio, scivola sotto la pelle e puoi solo subirla, non importa quanto tu sia attento e sensibile e guardingo. «È logico, è matematico. Dimostra a qualcuno la futilità dell'esistenza ed egli impazzirà senza rimedio. Vivrà ma è una non-vita, perché quando sei sotto il controllo di qualcuno non sei veramente vivo; e tutti adesso rispondono a me. Buona sopravvivenza all'inferno, preside Phoenix.»
«Konzen!» urla Philip ma il Macellaio non si mostra più e le ultime parole riverberano la loro condanna.
Nella sala briefing cala un silenzio pesante, mentre sul monitor Deling City continua a vivere morire. In un gesto automatico, Philip risponde alla chiamata codice rosso dalla sala comandi, lo sguardo vacuo.
«Philip, siamo pronti. Non c'è modo di riportare alla normalità i cristalli, né abbiamo abbastanza energia per convogliare al meglio un salto. Rimbalzeremo entro l'atmosfera del pianeta e sfrutteremo la spinta almeno per far scaricare i cristalli e uscirne vivi, ma quanto al fatto di trovarci tutti nello stesso punto...»
«Lo so. Procedi, Leon, è la nostra sola possibilità.»
Il preside lascia cadere il braccio lungo il fianco, si morde un labbro fino a farlo sanguinare, poi apre la comunicazione con il Garden - la voce ancora una volta ferma e sicura, come il leader che dev'essere.
«Stiamo per effettuare una manovra d'emergenza. Rimarremo entro i confini del pianeta ma con molta probabilità verremo divisi. Qualsiasi cosa succeda, ovunque ci troveremo, raduniamoci tutti alle Rovine di Centra a una settimana da adesso. Ricordatevi, non fidatevi di nessuno. Solo dei vostri compagni.»
Il salto dimensionale strappa quelle ultime sillabe.
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Non ci sono stelle a illuminare il cammino, la neve è un ostacolo sempre più insuperabile e quella che doveva essere una richiesta di aiuto a persone civili si era rivelato uno scontro all'ultimo sangue. Lenne alza il volto in mezzo alla tempesta, annusa l'aria. Preferirebbe di buon grado qualsiasi altra soluzione ma: il passaggio attraverso le montagne è bloccato da una frana; ma: è troppo tardi per cercare subito una via alternativa; ma: è troppo freddo per restare accampate all'aperto. Dietro di lei, Edith incespica, sibila una bestemmia a mezza bocca. Si volta, ne scruta l'espressione contratta dal dolore e la mano premuta contro il fianco, che si affretta a spostare appena se ne rende conto. Gocce brunite scivolano dalle dita sporcando la neve: se continua a perdere sangue in quel modo, rischia lo shock ipovolemico, non proprio la situazione migliore quando ci si trova nel mezzo di una tormenta annunciata e in fuga da qualcosa che ancora non possono comprendere - il Macellaio era stato vago ma le immagini, oh quelle avevano parlato molto chiaro prima che ne fossero direttamente coinvolti. L'assenza di Elza pesa su di loro in un silenzio consapevole. Non si tratta solo di risparmiare le forze ma mettere a tacere una verità che non vogliono prendere in considerazione: sono rimaste separate durante l'inseguimento, potrebbe benissimo essere in condizioni migliori di loro. O...
Lenne riporta lo sguardo davanti a sé. Il paesino si intravede a malapena dalla distanza ma è davvero lì come indicato dalle mappe; saranno dieci minuti di cammino ancora, possono farcela. Fa scivolare il braccio di Edith attorno alle spalle, incurante delle sue deboli proteste, e la sorregge finché giungono ai cancelli: sono quattro case diroccate attorno alla piazza della chiesa, nessuna persona nei paraggi. Le porte sono tutte aperte e ci sono lenzuola chiare appese di fronte a una delle abitazioni, spettri che si agitano nel vento, ma Lenne non pensa a quello, non
può farlo - il sole è ormai tramontato ed Edith ha bisogno di cure migliori, un tetto, un posto caldo dove riposare. Quel villaggio è solo un'occasione di cui approfittare e se dovesse davvero nascondere qualche minaccia, la affronteranno a tempo debito.
Dentro la prima casa trovano acqua, del cibo, ma le finestre sono rotte, così passano alla seconda e poi alla terza dove finalmente recuperano la legna per il fuoco assieme a delle coperte. Nessuna delle due è dell'umore per esultare, non sono però nemmeno tanto ingenue da sputare in faccia a questo colpo di fortuna. Meglio bloccate in una valle deserta che… troppo altro, a ben pensarci. Qualcuno ha sbarrato le finestre, Lenne non si attarda a chiedersi perché e accende il fuoco, mettendo a scaldare dell'acqua prima di voltarsi verso Edith che nel frattempo si è lasciata andare su una sedia vicino a una finestra e non ha smesso per un secondo di guardare di fuori dagli spiragli delle assi mal inchiodate - una smorfia contratta in viso e il respiro pesante. È così lontana dal camino da essere quasi immersa nell'oscurità, una sagoma più scura stagliata contro il muro, solo pochi riflessi sui bottoni della divisa slacciata o sui suoi occhi attenti ma Lenne la vede lo stesso: tiene un ginocchio raccolto al petto, il tacco dello stivale contro il bordo della sedia e il braccio abbandonato sulla gamba, mentre un tremore leggero la scuote dalle spalle alle mani. Cerca nei cassetti, nel bagno e anche al piano di sopra qualsiasi cosa che possa sfruttare per ricucirla: ago, filo e una bottiglia d'alcol è quanto di meglio riesce a recuperare, e una volta radunato tutto raggiunge la SeeD ancora immobile.
«Spogliati. E levati quell'espressione dalla faccia.» aggiunge annoiata, quando al suo iniziale stupore subentra un ghigno malizioso. «Non sei il mio tipo.»
«Tre frasi e persino del sarcasmo. Stiamo facendo progressi, Silveross, mh?» irride ma Lenne la fissa e
basta. «Ho capito, ho capito.» sbuffa, obbedendo.
Trascina la sedia vicino al fuoco, si sfila la giacca e la maglia sporca di sangue borbottando qualcosa in merito al volere vestiti puliti, poi torna a sedersi con il fianco rivolto verso le fiamme. Lenne imbeve una pezza d'acqua, la passa lungo tutta la ferita senza esercitare troppa pressione: i bordi sono slabbrati in maniera superficiale e non è troppo profonda ma rimane il rischio d'infezione. Prende l'alcol, lo versa sul lembo del panno ancora asciutto; ignora il sibilo dolorante di Edith, grata anzi che non stia parlando.
Quello stato di grazia regge molto poco. «Dov'è?» chiede di punto in bianco e Lenne rallenta il proprio meticoloso lavoro di cucito per sollevare lo sguardo incontrando il suo. «Dai, l'hai capito di cosa parlo.»
Aggrotta la fronte, al che ragazza le picchietta una spalla ottenendo un'occhiata minacciosa. «
Cosa.»
«Quella sorta di grillo parlante violetto. Siete come il pane e il burro, è incredibile non vederla con te.»
Prima che Lenne possa anche solo pensare a una risposta, una voce querula si leva dalla bisaccia - la sua, naturalmente. «Trovo questo paragone molto inesatto signorina Lance: io e la signorina Silveross siamo insieme per una serie di sfortunati eventi, se mi consente l'espressione, a poterlo fare si sarebbe liberata di me già da tempo. Inoltre, sarei una gru.»
Edith scoppia a ridere all'improvviso, un sussulto al quale segue un'inevitabile smorfia sofferente. Poco più in là si levano diversi fruscii finché la testolina di Chiyoko non fa capolino: un momento dopo sta già svolazzando verso la spalla di Lenne, dove si posa con un lieve fremito per scrutare meglio la ragazza.
«Suppongo che adesso sia tutto come deve.» tuba e al "no" di Lenne fa da contraltare il "sì" divertito di Edith. «Suggerisco di prendere esempio, signorina Silveross, e apprezzare come lei la mia presenza.»
Per tutta risposta, Lenne fa ciò che le riesce meglio in quei casi: la ignora. Con la coda dell'occhio nota Edith allungare un dito verso la testolina della gru e ascolta distrattamente le domande in merito al suo funzionamento, una curiosità che inorgoglisce quel petulante foglio di carta viola grato alla fine di avere una persona che "riconosca il suo valore". Trattiene un sospiro, mette gli ultimi punti e nel risollevarsi in piedi spazza con finta casualità la spalla spedendo via Chiyoko, che esprime tutta la sua indignazione arruffando le pieghe e spostandosi sopra il camino.
«Con questi mezzi di fortuna non è possibile fare di meglio, nel frattempo reggerà. Ti servono però cure decenti il prima possibile, per evitare un'infezione.»
Edith mastica un'imprecazione, giocherella poi con la maglia stretta fra le mani mentre fissa lo sguardo nelle fiamme guizzanti. «Cos'erano diventate quelle persone?» chiede, a voce tanto bassa che sembra stia parlottando fra sé e sé. «cxxxo,» aggiunge con uno sbuffo sarcastico, «se non scadesse in un film di serie B giurerei fossero dei -censura- morti viventi.»
«La cosa ti stupirebbe?» la voce di Lenne è priva di inflessioni mentre scruta oltre le assi della finestra.
«Solo se non ci fosse una multinazionale malvagia a tramare nell'ombra. No,» aggiunge dopo un lungo silenzio e il suo tono cambia ancora, si fa più serio, «abbiamo affrontato merda peggiore. Penso. Però mi chiedo se a questo punto io non sia già infetta.»
A quelle parole, Lenne si volta,
quasi sorpresa che Edith sappia affrontare un discorso senza agire da idiota com'è solita fare. Osserva il profilo tracciato dalle fiamme, un nervo contrarsi sotto la mascella - le verrebbe da dire che ha paura, se solamente ce ne fosse la minima traccia in lei. Non è neppure la quieta rassegnazione di chi è arreso a un'evidenza ancora tutta da confermare: c'è consapevolezza e nient'altro, in quella considerazione buttata lì come per caso, non teme l'eventualità e le sue inevitabili conseguenze dandole piuttosto una voce concreta.
Non sa niente di lei, non hanno mai parlato prima e non le è mai interessato farlo. Da quanto ha capito ascoltando le chiacchiere degli altri SeeD aveva un ruolo di comando nel suo mondo, qualcosa che alla fine non era nemmeno difficile da intuire se sapevi dove guardare, i gesti ai quali prestare attenzione - oltre una leggerezza che era spesso una forzatura. E davanti alla prospettiva di non avere un futuro, di diventare pelle cadente e mascelle che schioccano, dimostra una tranquillità anomala, persino curiosa. Forse è la ragione per cui Lenne sceglie di dirglielo.
«Non lo sei.» Edith volta di scatto la testa, la fissa;
studia la sua figura nella penombra, gli occhi verdi che sembrano bruciare e la pupilla inumana, sottile come quella di un felino. «Non sei infetta.» precisa.
«Questo l'avevo capito ma come fai
tu a saperlo?» Lenne non le risponde, torna a scrutare all'esterno. «Si può sapere perché cxxxo sei così certa, o no?»
Lenne le offre uno sguardo distratto. «L'ho sentito.» è la sola, essenziale spiegazione che le concede.
«Ah, ovvio. Ora è tutto chiaro.» sibila tagliente. Poi la guarda, perplessa. «No aspetta, l'hai
annusato?»
La donna scrolla le spalle. «Se vuoi metterla così.»
Edith sembra rifletterci sopra un momento, sgrana gli occhi - avvampa. «Puoi annusare
tutto?» Lenne libera un sospiro esasperato, annuisce. «Oh. Come aveva detto una volta Paine, sei proprio un cane.»
Lenne le rivolge un'occhiata in tralice, la linea della schiena rigida, una contrazione istintiva dell'anulare destro - tace e ascolta il silenzio, ciò che nasconde.
«Devo andare a cercare Elza.» dichiara a un certo punto, prendendo la spada appoggiata alla parete lì accanto e agganciandola alla schiena. «Tu pensa a recuperare le forze, non rimarremo qui per molto.»
«Hai scoperto qualcosa?» le domanda ma quando Lenne la ignora per l'ennesima volta, le agguanta il polso di scatto appena le passa vicino. «Rispondi.»
La donna le cerca gli occhi, la fissa con un'intensità spaventosa - così quieta da esser quasi aberrante.
«Hai la guerra nel sangue, Edith Lance. Lo dovresti sapere che quando tutto tace
niente è mai sicuro.»
Senza aggiungere altro, si libera con uno strattone dalla sua presa e raggiunge l'ingresso, ma la SeeD si alza, annulla la distanza che le separa - testarda.
«Qui non ci resto. Non te ne andrai lì fuori da sola.»
«Non pensavo ci tenessi tanto alla mia incolumità.» la sbeffeggia Lenne, una mano stretta alla maniglia.
Edith snuda i denti, le punta l'indice contro. «Visto che sei affabile come un palo nel culo, detto fra noi non me ne frega un cxxxo. Ma preferisco ignorarti da
viva all'idea di dovermi proteggere da te
morta.»
Lenne curva un angolo della bocca. «Come credi, ragazzina. Prega solo che quei punti non si aprano, perché ti fiuteranno prima che tu possa pentirtene.»
Edith si esibisce in un'espressione persino
comica, se fuori da quella porta non ci fosse una tempesta e chissà cos'altro ad attenderle. «Cosa significa?»
«Significa», risponde la donna senza più guardarla, «che il tuo regale culo dovrai proteggerlo da sola.»
«Stronza.» borbotta rivestendosi in fretta ma Lenne l'ignora ed esce senza perdere ancora altro tempo. La SeeD ingoia un altro insulto, la segue, assieme a Chiyoko che si è rinchiusa in uno strano silenzio.
All'esterno, la temperatura è scesa ulteriormente da quando hanno trovato riparo, il vento sferza e
taglia mentre la neve rende impossibile vedere al di là di qualche metro. Incurante del freddo, Lenne inclina il mento a destra, a sinistra - arriccia le labbra sui denti, socchiudendo la bocca mentre annusa l'aria, l'ambiente circostante. Edith le si affianca, il respiro corto che si spegne in sbuffi di condensa, gli occhi vigili per quanto sia possibile. Lenne alza il volto al cielo nero, dilata le narici, cerca un odore familiare.
Escono dal paesino ma scelgono di costeggiarne il perimetro, perché anche Elza era a conoscenza del luogo e avrebbe potuto raggiungerlo. Non c'è altro che bianco a perdita d'occhio, davanti a loro, ma se qualcuno fosse passato da lì la neve ne avrebbe lo stesso celato le tracce. A Lenne ricorda il passato, quando correva con Slever e la gente al confine di Aynil li chiamava "giorni della polvere" - venti feroci e fiocchi di neve ruvidi, taglienti persino, momenti in cui il confine tracciato dal fiume era una crepa della memoria, perché a un palmo dal naso c'era il
nulla. Come allora. Si chiede se negli anni il clima di quel mondo non sia peggiorato perché, nonostante non ci abbia passato molto tempo, neppure le zone più gelide arrivavano a tanto: le neve vetrifica ovunque si posi, sulle ciglia, sulla testa, lungo la curva delle spalle, ma se il gelo non sfiora chi è già morto una volta lo stesso non si può dire per Edith. Nemmeno i guanti sembrano impedire alle sue dita di perdere sensibilità, a giudicare da come strofina le mani fra loro, eppure non dice niente. Tutto intorno è bianco: quando infuria la tempesta, persino pochi passi al di fuori della zona sicura bastano a condurti in un inferno lattiginoso dove nulla è più come dovrebbe essere e le distanze sono una dimensione emotiva.
«Senti qualcosa?» le domanda a un certo punto, a voce abbastanza alta da farsi sentire ma non tanto da creare un'eco, segno che ha assimilato in fretta una fra le tante leggi non scritte - se la tormenta è così fitta da rendere persino l'aria un velo opaco, la vista serve a poco laddove udito e olfatto diventano i migliori alleati sul campo, oppure i peggiori nemici.
Lenne scuote la testa, poi all'improvviso si ferma e stende un braccio per bloccare anche la SeeD, che ci sbatte contro sibilando un'imprecazione. Volge lo sguardo a sinistra, aumenta il passo senza fornire spiegazioni ed Edith avanza a stento al suo fianco, il volto congestionato dal gelo e le labbra livide. C'è un tronco abbandonato e non ancora coperto dalla neve, non tanto da nascondere la traccia vischiosa che emerge in mezzo a tutto quel bianco. Lenne si inginocchia, strofina il sangue tra le dita, lo annusa.
«Non vorrai
leccarlo, spero.» E pensa che farebbe bene ad abbandonare quella ragazzina in mezzo al nulla oppure cedere a un legittimato istinto omicida.
Si rialza, punta lo sguardo di fronte a sé. «È suo ed è andata di là.» la informa laconica. «Muoviamoci.»
Edith strizza gli occhi nel buio. «Ma laggiù c'è la...»
«… chiesa, esatto. Sono stupita che tu sia riuscita a tenere un vago senso dell'orientamento, Lance.»
Per tutta risposta lei solleva un elegante dito medio e riprende a seguirla, la neve ormai oltre le caviglie. Potrebbero tornare all'interno del villaggio, arrivare di fronte all'edificio, ma Lenne non vuole perdere la traccia rinvenuta, seppur lieve, e alla fine raggiunge un lato dell'edificio; l'aura di morte ad ammantarlo è tanto soffocante che persino Edith la percepisce e storce la bocca. Nonostante la fatiscenza delle altre abitazioni, la chiesa sembra all'apparenza inviolata, non ci sono pareti crollate o punti che possano aver offerto a Elza un ingresso sicuro. Lo stesso tetto è troppo al di fuori della portata del rampino ma della ladra non c'è traccia: se non è nei paraggi, e Lenne su questo può scommettere, deve avere scoperto il modo per intrufolarsi - qualcosa che a loro sfugge.
«Non mi piace fare la voce della ragione, signorina Silveross, ma questo edificio pare piuttosto antico. Sarebbe lecito supporre che abbia più di un'entrata, se capisce cosa intendo.» interviene Chiyoko dallo spiraglio della bisaccia, la testolina appena visibile.
Edith schiocca le dita, illuminandosi. «I sotterranei! Bravo, piccione. La cosa non mi esalta, ma bravo.»
«Signorina Lance, la prego. Nutrivo speranze in lei, non mi apostrofi in una maniera tanto indecorosa.»
«Tiro a indovinare, c'entra forse qualcosa una certa SeeD dagli atteggiamenti più bestiali che umani?»
«Non può capire.» lamenta la gru cogliendo l'assist al volo e se Lenne non fosse impegnata a sondare il terreno vicino si sarebbe già liberata di entrambe.
Alla fine trova quello stava cercando, una lastra di pietra sottile rimessa al suo posto in malo modo: la solleva, scoprendo una rampa di scale che scende nella più totale oscurità. Osserva Edith in silenzio e la ragazza ricambia, il sopracciglio destro inarcato.
«Non mi rinchiuderai dentro una volta passata, sì?» domanda, rendendosi conto solo dopo di aver dato a Lenne un'idea a cui magari non ha pensato; poi, scrutandola meglio, realizza che ha già considerato quella e infinite altre opzioni. «Mi voglio fidare, eh.»
Per chi è arrivato vivo fino a qui. Nel caso non fosse chiaro dal post, siamo tutti sempre nel mondo di Final Fantasy VIII ma sparsi ovunque, il Garden è integro per quanto possibile ma "scarico" e soprattutto la questione infetti: l'ispirazione è presa dall'equazione anti-vita della DC Comics e in parte dalla sua versione nella serie attualmente in corso DCeased ma anziché essere morti viventi veri e propri, immaginateveli come nel film 28 Giorni Dopo e dunque portatori di un virus non dissimile a quello della rabbia. Per qualunque altro dubbio, PM o piccione viaggiatore.