FanFic Garden

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Nightmare/dark sephirot
SeeD
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Nightmare/dark sephirot »

Selene [1]


17 anni.
4 anni dagli eventi di Null.
Eravamo sempre di meno, ma ciò non costituiva un grosso problema per noi reduci, anzi! Si può dire che tale situazione ci aveva permesso di stringere delle amicizie, anche se forse non è il termine più esatto.
E' vero, conoscevamo tutti i nostri rispettivi nomi, la nostra provenienza, le nostre abilità... Ma il nostro vero Io? Quello era ben altra cosa, solo una piccolissima parte emergeva, il resto era sepolto nei meandri dei nostri ciondoli del Garden; avevamo adottato tutti quel sistema, era tra i più sicuri per preservare la nostra identità primaria, inoltre ognuno aveva apportato delle modifiche al proprio ciondolo per renderlo riconoscibile.
Un po' come le targhette degli animali domestici a ben pensarci, ironico. Ironico, ma funzionale.

Forse ciò che rendeva davvero possibile l'instaurarsi di un rapporto di amicizia in quelle condizioni era il riuscire a scherzare in compagnia, ridere sui pregi e difetti delle nostre abilità; così finivamo spesso per prendere oggetti a casaccio e cambiare momentaneamente personalità, ottenendo così un teatrino con ogni giorno nuove storie e protagonisti!
Era divertente! E gli stessi scienziati del centro non di rado assistevano alle nostre rappresentazioni, un po' per controllare che non ci fossero effetti collaterali di sorta e un po' per farsi quattro sane risate.
I più gettonati per la recita generalmente eravamo io, Frederich ed Aurelia: Aurelia legava bene con l'Anima, Frederich subiva meno l'influenza mentale ma assorbiva tutti gli eventuali tic mentre io, come ora, non ricordavo mai nulla (e ciò nondimeno mi faceva finire in situazioni tanto divertenti quanto imbarazzanti).

Mi mancano quei due!
Frederich era sempre pronto a tirarci su di morale, riusciva a capirci alla perfezione sebbene avesse ancora qualche problema con le Anime degli oggetti.
Lia era sempre sorridente, scherzosa e TREMENDAMENTE SCHIETTA! Ma anche le sue affermazioni ai limiti della decenza le venivan perdonate, non so se per la sua abilità o per lo splendido sorriso ereditato dalla madre, Selene.
A ben pensarci, le migliori qualità le aveva prese da lei, si somigliavano tantissimo sia caratterialmente che fisicamente!
Senza contare che Selene è stata per tutti noi un po' come una seconda madre, ed è grazie a lei se non ho sentito troppo la mancanza dei miei; non che io li accusi di nulla, hanno fatto tutto quel che potevano per me e non potevano in alcun modo essere presenti quanto avrebbero voluto. Selene ha fatto le loro veci e quelle di molti altri genitori.
Era una persona veramente premurosa, una delle pochissime a considerarci come degli esseri umani o meglio come dei bambini quali eravamo!
E tutt'oggi fatico a credere che una tale donna potesse celare quella furia in abiti da Seed, quell'aggressività che ha condotto la sua famiglia a un triste epilogo.
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Nataa
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Messaggio da Nataa »

Choices
Lasciai cadere la testa all’indietro, il vento fresco della sera era piacevole al contatto con la pelle, un balsamo al terribile calore del giorno. Chiusi per qualche istante gli occhi per riaprirli su una distesa infinita di stelle: l’oscurità del deserto regalava scenari celesti da mozzare il fiato per la loro bellezza; chiusi ancora gli occhi lasciandomi trasportare dai leggeri rumori del fuoco appena nato e mi ritrovai a chilometri di distanza, ad anni di distanza dal deserto di Sanubia. Una piccola e impaurita Calien prese forma nella mia testa; erano gli anni dell’addestramento, in cui bastava una parola sbagliata per morire. Eravamo in fila, dodici, i sopravvissuti: tra tutti ero la più piccola, l’esperimento dell’ultimo secondo; ero stata creata per sostituire un aborto e per produrmi erano state usate “cellule di scarto”. Destinata a morire secondo tutti. Eppure fui l’unica a vivere tra quei dodici.

Aprii gli occhi di scatto, uno scoppiettio più forte del fuoco e l’imprecazione del mio compagno mi riportarono al presente. Lontana dai ricordi.
«F.anculo anche al fuoco» nel dirlo tirò un calcio nel vuoto, un tentativo puerile di sfogare la propria frustrazione per essersi scottato.
Lo guardai per qualche secondo prima di sedermi accanto al falò, il ragazzo mi seguì qualche secondo dopo «Oggi non fai commenti saccenti?» si schiarì la gola per poter imitare una voce più stridula della sua «Leon non dovresti avvicinarti al fuoco. È pericoloso!»
Scrollai la testa «No oggi nessun commento» presi tra le mani un bastoncino e iniziai a giocherellare con la brace rovente, una mano mi premette sulla fronte per pochi secondi «Non ho la febbre, perché dovrei?»
«Perché ti comporti come se fossi triste e dubito possa essere un bene né per te, né per me» la sua mano andò istintivamente alla pistola nella fondina; un modo veloce di compiere il suo lavoro di carnefice, che fui io stessa a consigliare.
«Non sono triste Leon. Sto solo ricordando alcuni episodi del passato, quindi non sto dando rilevanza ai tuoi comportamenti illogici e pericolosi… …cosa fai?»
il ragazzo si sedette accanto a me «Alcuni dicono che non si possa ricordare senza i sentimenti. Non sono gli episodi a tornarci in mente, ma solo le sensazioni legate a questi, lo sapevi?» un mezzo sorriso sottolineava il suo timore nel vedermi cambiare
«Lo ha detto Glattauer, non sono da tenere in considerazione le sue parole. In realtà i ricordi sono semplici registrazioni; attraverso formazione di una specifica rete neuronale, prima nell'ippocampo e poi nella corteccia, dove viene definitivamente conservata. Il richiamo è dovuto a qualche sollecitazione esterna solitamente. Non è altro che un processo mentale grazie al quale esaminiamo il passato per non ripetere gli stessi errori. È il modo in cui il nostro corpo ci salvaguardia.» nel dirlo stuzzicai il fuoco per non farlo spegnere
«E cosa ha messo in moto i ricordi?» Leon si sporse verso di me per cercare i miei occhi, sperando di vederne attraverso, illudendosi di trovare il brandello di umanità che in qualche modo era aggrappato a me, nonostante facessi tutto quanto in mio potere per eliminarlo definitivamente.
Era l’umanità a rendere debole l’uomo.
«La data» distolsi lo sguardo e lo indirizzai tra i lembi del fuoco, e lì ancora una volta venni trasportata anni addietro, nel momento in cui si strappò in me tutto ciò che di umano avevo.

Skreetch era un cane di media taglia, un meticcio dal pelo fulvo; un regalo che la De Garde aveva fatto a 01741 per il suo quinto compleanno. L’affetto dell’animale era puro e incondizionato, un cucciolo che interagiva con gli altri e riempiva la monotona vita degli esperimenti. In qualche modo era entrato in contatto con tutti noi ed era diventato il cane della compagnia. Per la prima volta un po’ di vita animava i freddi corridoi del centro di ricerca, ogni tanto una piccola risata veniva soffocata tra i cuscini e la crescente allegria era a stento trattenuta dai volti delle cavie.
Fu una fredda mattina di dicembre che segnò la svolta, e per la prima volta ci rendemmo conto di cosa significasse la nostra vita. Si capì che non era scontata la nostra esistenza, che ogni azione avrebbe comportato una reazione della stessa intensità. Un basilare principio della fisica che applicato alla realtà della vita quotidiana diveniva insopportabile per chiunque si potesse chiamare essere umano.
«Skreetch è stato infettato con il virus 340-G17. Vostro compito è osservarne l’incedere della malattia e ai primi sintomi che possano rivelarsi pericolosi per gli esseri umani eliminarlo» il profumo della De Garde era dolce fino alla nausea, un forte contrasto con la sua spietata e seria personalità.
I suoi ordini erano legge, ancora di più, i suoi erano comandamenti di una vera divinità, la punizione per la disubbidienza era la morte. Alle sue parole si alzò un leggero mormorio, un misero tentativo di opporsi alla dittatura della donna, ma la sua espressione mise a tacere anche il più coraggioso «Skreetch da oggi verrà chiamato 111 e voi ne osserverete il progredire della malattia. Ai primi sintomi pericolosi lo eliminerete. Infine eseguirete una biopsia per esaminare l’azione distruttiva del virus» le parole vennero scandite lentamente e non ammettevano repliche.
Ci volle una settimana perché 111 iniziasse a manifestare i primi sintomi della malattia: una leggera inappetenza, svogliatezza e stitichezza. Due settimane dopo il cane era diventato un piccolo mucchio d’ossa rintanato in un angolo della sua stanza preferita, non si lasciava avvicinare da nessuno se non dal piccolo padroncino, il quale non lo lasciava un secondo da solo, lo curava con amore e dedizione: una vera anomalia genetica per quelli come noi.
Ad un mese dall’innesto della malattia, una mattina ci svegliammo e trovammo il corpo di 01714 a brandelli e il fu Skreetch a divorarne le ossa. Per un solo attimo il cane ci guardò negli occhi e sembrò chiedere perdono, sembrò urlare pietà per la sua condizione.
Nessuno osò premere il grilletto della pistola, alcuni avevano gli occhi lucidi.
La crudeltà di cui erano stati i burattini consapevoli si dipanava davanti i loro occhi e nessuno ebbe il coraggio di portare a termine la recita. Fu in quell’istante che capii. Se non eri come volevano, allora eri come i due sfortunati amici: semplice, inutile carne da macello.
Non era quello che volevo.
Stringere i denti e sopravvivere in qualunque modo, fu quello l’unico obiettivo della mia vita.
Presi il revolver nel primo cassetto della scrivania di De Garde, lo puntai dritto al centro del cranio di 111, che mi fissò per tutto il tempo, i singhiozzi di due ragazzine furono l’unico rumore a penetrarmi nella testa quando premetti il grilletto.
Fu facile, terribilmente facile piegarmi all’Ordine, più che morire per la gloria.

Lo sventolio di una mano davanti gli occhi mi fece sobbalzare «Allora ci sei. Sai che ti sto parlando da almeno cinque minuti?» Leon sbuffò «ancora qualche ricordo?» mi limitai ad annuire leggermente con il capo e un mesto sorriso prese il posto dell’impazienza sul volto del ragazzo, forse lui per primo era stato visitato tante volte dai fantasmi del suo passato, l’unico a poter capire che quando gli spettri tornano a parlarti bisogna lasciarli esprimersi fino in fondo, per capire cosa ti stanno raccontando.
Lo sfrigolio della carne sul fuoco riempì quegli attimi di silenzio «Vuoi mangiare qualcosa?»
«Non ho molta fame» ma le mie parole non sortirono effetto e nel giro di pochi minuti mi ritrovai con un abbondante piatto fumante nelle mie mani
«Il fatto che io abbia cortesemente rifiutato da mangiare non ha sortito nessun effetto, vero?» con l’olio che gli colava giù dal mento Leon scoppiò a ridere sguaiatamente
«Quando fai così mi ricordi tanto un’altra ragazza che rifiutava sempre qualunque mano, ma nessuno la stava mai ad ascoltare veramente e volente o nolente veniva sempre aiutata da tutti» mi morsi le labbra per soppesare la risposta «E nessuno ha mai pensato che davvero non volesse essere aiutata? Non tutti vogliono essere salvati, alcuni preferiscono rialzarsi con le loro forze» nel dirlo osservai lo sguardo del ragazzo mutare, forse anche queste parole gli erano più familiari di quanto non pensassi
«Ciò che frena dal chiedere aiuto è solo la paura di non avere nessuno a cui aggrapparsi» storsi leggermente la bocca «Dimentichi che io non posso avere di queste paure. Sono irrazionali e illogiche».
Leon si diede una botta sulla fronte con il palmo della mano «Che sciocco che sono! Dimenticavo quasi chi fossi! Miss O’Nayel, la donna senza sentimenti!» la sua intonazione mi fece immediatamente nascere il sospetto che si trattasse di un’affermazione ironica
«Ti rifiuti di credere che io sia vuota, solo perché ti farebbe troppo male ammettere che è la pura verità» a quelle parole il ragazzo si alzò in piedi e con una falcata mi raggiunse afferrandomi con forza le braccia «Come potrei credere che sei vuota? Davvero non provi nulla? Non piangeresti davanti alla morte di un amico? Non proveresti pietà per un’ingiustizia? Non puoi dirti viva senza sentimenti, te ne rendi conto? Sono quelli a mandarci avanti, a far girare il mondo. Calien cosa vedi guardando il fuoco?»
Lo guardai di traverso «Come hai detto?» «Che sono i sentimenti a mandarci avanti…» Leon lasciò la presa «Non questo, ma subito dopo» lo vidi scuotere la testa castana in segno di diniego, non aveva proferito altra parola.

«Calien cosa vedi guardando il fuoco?» la voce monotona del ricercatore era diventata un mantra, una domanda ripetuta giorno dopo giorno, che aveva perso qualsiasi significato nella mia testa, così come attimo dopo attimo i colori della vita perdevano qualunque senso.
«Un insieme di diverse manifestazioni distinte, percepibili con i nostri sensi, di fenomeni fisici che derivano tutti direttamente o indirettamente da una reazione chimica definita di combustione» una risposta meccanica e sincera.
Non c’era altro nel fuoco che un processo chimico.
Non esisteva la magia del falò che attrae e repelle allo stesso tempo; non esiste il calore e il riscaldarsi se non quello chimico; non esiste l’amore per l’odore; non richiamava alla memoria eventi felici; non aveva il sapore delle caldarroste della domenica consumate con la famiglia; non significava nulla.

«Cominci a preoccuparmi, sai?» sgranai gli occhi riconoscendo i contorni del mio compagno di viaggio.
Non ero più al laboratorio, non avevo tre anni, non esisteva più il giogo della De Garde. Sospirai «Perdonami Leon è una serata particolare, forse è meglio concluderla qui» gli porsi il piatto ancora pieno, ma neanche il suo sguardo di rimprovero mi fece desistere dalla mia decisione.
Il sole del mattino avrebbe spazzato via i ricordi di anni e tutto sarebbe tornato alla mia normalità.
Feci per alzarmi, ma Leon mi bloccò «Ancora un secondo per favore» si voltò e corse a trafficare tra i bagagli, lo sentii imprecare contro una cinghia, ma poi avere un’esclamazione di giubilo. Tornò da me con tra le mani una piccola fetta di dolce sopra cui era stata sistemata una candelina «Buon compleanno! Esprimi un desiderio»

Qual è desiderio di una ragazzina vuota, priva dei colori dell’anima? Non lo sapevo neanche io, ma spensi la candelina.
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Hjordis
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Hjordis »

Brødre

Mi voltai e accennai un inchino. «Ti ho sentito» mormorai nella quiete della notte e Arne piegò il capo, imbarazzato.
Da quando ci eravamo riuniti aveva frequentato poco la struttura, quasi gli pesasse sostenere il mio sguardo per motivi che non avevo faticato a comprendere; Leif avrebbe criticato questa sua debolezza chiamandolo immaturo, perché un re non deve temere il giudizio di nessuno se non della propria coscienza, ma il mio sposo aveva ricevuto il peso del comando troppo presto e passato tanti anni in guerra da non ricordare di essere stato proprio come lui.
«Anche voi non riuscite a dormire, madre?» domandò, attraversando il giardino per fermarsi inquieto al mio fianco.

Guardai il cielo, una trapunta di stelle, poi gli sfiorai i capelli quasi fosse ancora un bambino. Avrei voluto, eppure non sarebbe stato giusto: non è inseguendo il tempo perso che la storia cambia - non la tua, non quella di chi ami.

«Non sono riuscito a trovarla» esordì dopo un lungo silenzio, i pugni chiusi lungo i fianchi e la voce debole. «Io...»
Accarezzai la sua guancia prima di prenderne la mano e portarla alle labbra, baciandola con tenerezza; era uomo e guerriero ormai, tuttavia per me restava ancora il bambino biondissimo che ruzzolava per le strade assolate di Dali.
«Non ho giustificazioni» aggiunse, voltandosi e costringendomi ad affrontare la desolazione di due occhi azzurri, che sconfitta e rimorso rendevano metallici come un mare in tempesta. «Ripudiatemi, se credete. Vi ho deluso e...»
«Come puoi essere così cieco da pensare che io possa allontanare il primo dei miei figli, ora che l'ho ritrovato?»
«Siete regina degli Ajsynn, signora della guerra e mia madre.» Non eluse il mio sguardo. «Ed io vi ho disonorato.»
Sollevai il palmo, una richiesta di silenzio alla quale obbedì senza riserve. «C'è saggezza viva in te, Arne. Se esiste qualcuno d'innocente, fra noi, quello sei tu: non tormentarti con il peso di responsabilità che non ti appartengono.»
Le sue dita cercarono di nuovo il palmo e graffiarono. «Mi avete insegnato lealtà, onore, coraggio; soprattutto, mi avete fatto capire che si combatte soltanto per qualcosa che vale. Dovevo prendermi cura di lei, come promesso.»
«E l'hai fatto: se così non fosse stato, tua sorella non ti amerebbe a tal punto. I suoi ricordi più belli riguardano te.»
Arne sollevò la testa fissandomi stupito. Poi sorrise d'istinto, una smorfia colma dell'incredulità più sincera. «Me?»

Annuii, abbandonandomi per pochi istanti alla memoria di un figlio portato dalla pace in una notte di neve, nella gola il pianto rabbioso di chi avrebbe guidato un popolo e un esercito, negli occhi il cielo e fra i capelli l'oro d'una stella invisibile. Un bambino che aveva conosciuto la neve ma la cui pelle profumava di sole - principe che avrebbe ereditato il trono per governare con una fermezza gentile, perché di Leif sarebbe sempre stato figlio e mai spada.

«Coraggio...» dissi, porgendogli il braccio mentre indicavo la panchina in pietra alle nostre spalle. «Sediamoci qui.»
La quiete del giardino rievocava quella del borgo dove gli eredi erano cresciuti, muovendo i primi passi, dividendo i giochi e scoprendo la vita nella sua infinita bellezza. Lì, sotto il mio sguardo vigile, Arne aveva imparato a usare la spada e Silje aveva tentato i suoi primi incantesimi per guarire il fratello dalle ferite che riportava negli allenamenti.
«Ricordate la sua prima parola?» domandò mentre lasciava vagare lo sguardo nella semioscurità, senza una meta.
«Ricordo davvero molto bene il panico della povera Ingvild, costretta a rincorrerti più volte di quante stessi fermo.»
Le sue labbra si piegarono appena, addolcite da un pensiero infantile e colpevole. «Ero così piccolo... volevo solo qualcuno con cui giocare e non avevo ottenuto che una bambola, una femmina minuta e fragile. Mi sentivo tradito.»
«Continua. Ho bisogno di guardarla un poco con i tuoi occhi: soprattutto, ne hai bisogno tu per non dimenticare.»
La voce s'incrinò. «Non so cosa aggiungere. Risentito, le ho detto qualcosa come "Non servi a niente, così piccola", "Non sai fare niente". Silje mi ha toccato e risposto: "Arne" e poi "Mio Arne". Ed io ho capito cosa fosse una sorella.»

Fissò la notte, le sue rade nubi. Da quanto non passavamo del tempo insieme? Da troppo, sussurrò il cuore ma, a prescindere da un destino che ci aveva divisi, i figli crescono e non appartengono più al grembo che li ha generati.

«È curioso, eppure non ho molta memoria dei primi anni della nostra infanzia. Di certo voi la conservate meglio...»
«La trovasti bruttissima sul momento, o almeno questo è quanto affermasti nei giorni, ma appena lei ti vide rise.»
Si strofinò la barba incolta: un'abitudine ripresa dal padre, benché nemmeno lo immaginasse. «Non ho ricordi della sua nascita ma ho ben presente il giorno in cui mi avete concesso di vederla e sì, ha sorriso: lo faceva spesso.»
«Era una neonata diversa e non per i colori che portava. Era sempre vigile, come se ascoltasse e capisse tutto.»
Scrollò le spalle. «L'intelligenza è stata, e certo è tuttora, un suo tratto caratteristico. Assieme a una sensibilità che non ammetterà mai e io ho calpestato, in fondo. Non era come me, perciò la lasciavo indietro in troppe occasioni.»
«Tu stavi crescendo. Eri un bambino, poi sei diventato un ragazzo. Non vi era crudeltà, né calcolo nelle tue scelte.»
«Può essere come dite. Se tuttavia non mi fossi atteggiato come il più primitivo dei Gojusheel, forse avrei potuto...»
«I se tormentano il presente, non cambiano il passato e non assicurano il futuro.» Piegai gli angoli delle labbra in modo impercettibile. «Cercherò Silje e la riporterò da te. Nel frattempo, rifletti sui sentimenti per quella ragazza.»
Per un momento soltanto, Arne annaspò. «Perdonatemi madre: sono stupido e non comprendo. Intendete dire...»
Risi e non avrei voluto ma c’era qualcosa di comico - puro - nell’espressione nervosa di un figlio dolce e semplice.
«È stata una lunga giornata e domani ripartiremo per la città di Esthar. Concedimi di ritirarmi» mormorai alla fine.
Avevo voglia di chiudere gli occhi, domandare perdono. Ad Arne, per avergli inoculato una speranza che avrebbe potuto non realizzarsi; a Leif, per non aver saputo essere sposa e regina fino in fondo; a Silje, per non averle mai insegnato la lezione più importante che potessi trasmettere. Imparare a riconoscere quello che non puoi chiedere.

L’amore di suo padre era stato un sentimento silenzioso. Quello del principe, da ricercare dietro troppo rumore.
* * * * * * * * *
«Ma io lo voglio!» Oltre la porta, Arne piagnucola con un accanimento che parla molto di lui. «L'hanno vista tutti!»
Sospiro e sollevo mia figlia tra le braccia, spiandone le iridi verdi colme di silenzio mentre si osserva con sguardo attento e fiero le piccole mani, prima di succhiarsi le dita. «Coraggio, entra pure» lo invito pochi minuti più tardi.

L'erede espugna la stanza con la delicatezza di un Behemot ma Leif ripete che diventerà guerriero, non un bardo.

«Cerca di fare meno rumore» lo avviso alzando la mano «altrimenti dopo averla svegliata, la spaventerai a morte.»
Si arresta all’improvviso e annuisce grave, con la comica serietà dei bambini. Poi avanza di un passo. «È piccola.»
Ammicco divertita. «Anche tu lo sei stato» rispondo e al suo mugugno aggiungo: «Devi darle il tempo di crescere.»
Arriccia le labbra, poi le sfiora la testa. «Io sono il fratello grande e tu sarai la mia schiava» pontifica con solennità.
Rido di gusto. «Povera Silje! Forse dovresti cominciare con un diverso genere di offerta, non sei convinto anche tu?»

[...]
La bambina rotola pensosa su una pelle di lupo, stringendosi addosso una pergamena dall'odore antico, polveroso.

«Che cosa sfogli?» L’altro invade la sua solitudine senza chiedere permesso. È l’unico a cercarla con tanta intensità.
«Le cronache della Nona Guerra di Lindblum del 1389» risponde tranquilla, sollevando appena gli occhi al fracasso.
«Oh...» lui si blocca e la fissa con curiosità, la testa appena inclinata sulla spalla. Poi sorride. «Allora leggi per me.»
Gli allunga il vecchio codice. «Fallo tu» propone, nella voce solamente una leggera traccia di infantile esitazione.
Il bambino scuote il capo. I capelli sono così biondi da sembrare oro. «La tua voce è più bella. Mi piace ascoltarti.»
E lei, che non gli hai mai negato niente, si sente felice perché le tocca di rado un complimento da parte sua; così lo accoglie al proprio fianco, riscaldata dal fuoco nel camino. «Va bene… Basta che non ti distrai come sempre, Arne.»
Nightmare/dark sephirot
SeeD
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Nightmare/dark sephirot »

Selene[2]

<<Allora, quanto ci metti?>>
<<Un attimo, ho quasi finito! Ma non puoi andare da un'altra parte?>>
<<Sono tutti occupati! Dai sbrigati! Non ti starai mica masturbando?>>
<<Cos... No! No, diamine no! E comunque non sono domande da fare.>>
<<Certo, certo... Muoviti e non pensarmi troppo mentre ti dai da fare.>>
Uscii dal bagno pochi secondi dopo trovando davanti alla porta Aurelia ancora intenta a ridacchiare; cercai di mantenere uno sguardo serio e infastidito, ma era un'impresa impossibile. Dal canto suo lei si limitò a darmi una piccola spintarella per poi chiudersi a sua volta nella toilet liquidandomi con un allegro "A dopo, Sieg!"

Per quel giorno era previsto un test particolare di combattimento e compatibilità, roba nuova.
Ero effettivamente abbastanza curioso di scoprire cosa avessero in mente e quale sarebbe stato l'esito, del resto fino ad allora io e gli altri non avevamo mai partecipato a test o allenamenti collettivi, o anche solo in semplici coppie.
Al massimo ci davano qualche arma da allenamento, tipo bastoni o cose così, e ci facevano scontrare di tanto in tanto per valutare le nostre capacità proprie; le basi del combattimento insomma, cose che tutti i seed ma anche i soldati normali dovrebbero conoscere.
Serviva anche a farsi un'idea generale della forma fisica del soggetto (sì, a furia di frequentare Jasper ho iniziato a definirci in primis dei soggetti sperimentali), i suoi riflessi, eccetera eccetera.
Ah, per la cronaca io perdevo.
A volte.
Spesso.
Molto spesso.
Praticamente sempre.
Non so dare una spiegazione logica, forse semplicemente gli altri erano più bravi; eppure mi allenavo con costanza e seguivo una dieta salutare. Mah.
Ad ogni modo, per il test fuori dalla norma eravamo stati scelti io e Aurelia in base alla nostra alta affinità con le Anime.
In quello che doveva essere il pomeriggio del fatidico giorno un paio di tecnici ci portarono in una sala spaziosa, completamente bianca e non arredata; in punti strategici sui muri erano collocate delle piccole telecamere e degli altoparlanti, un sistema antincendio e delle grate per le condotte dell'aria. Vi era un vetro a specchio da cui probabilmente ci spiavano i vari addetti e scienziati mentre sui lati opposti erano state adagiate a terra due coppie di daghe gemelle, ogni coppia con una lama vera ed una copia in legno.
Ad attenderci vi erano Jasper e il possessore delle daghe autentiche: Selene.

Ci venne spiegato in breve in cosa consistesse il test: esso mirava a una valutazione reale dell'affinità con l'anima e l'utilizzo sul campo, inoltre per avere dei dati più affidabili ed evidenti era opportuno far scontrare due soggetti che avevano assimilato la medesima anima. Ciò era stato possibile sfruttando lo stile di combattimento a doppia daga del Seed Selene, che offriva quindi due armi identiche da cui attingere stessa Anima; virtualmente il risultato sarebbe dovuto essere il medesimo su entrambi i soggetti, realmente invece... beh... era quello che si voleva scoprire.
Questo detto in maniera spicciola, senza paroloni o altri bla bla che nè ai tempi, nè ora nè mai riuscirei a ricordare.
Una raccomandazione importante, invece era di non prendere in mano le armi prima del segnale; Ah, e ci avrebbero chiusi dentro, aprendo la porta solo a test concluso.
Sì, la porta non poteva essere aperta dall'interno.
Un po' come le celle di una prigione. Suppongo fosse una giusta precauzione, tuttavia generava non poca ansia.

Prima di lasciarci ai nostri doveri, Selene abbracciò entrambi sorridendo; accarezzò velocemente la guancia della figlia, poi si diresse alla porta augurandoci buona fortuna e promettendo di rimanere lì vicino a controllare il tutto.
La porta venne chiusa.
Dall'altoparlante una voce ci invitò a posizionarci di fronte alle armi.
Una volta raggiunta la postazione la voce parlò nuovamente, dandoci il permesso di raccogliere le daghe ed iniziare.
Non ricordo più nulla.









Non ricordo più nulla. Non so cosa è successo.
Ma quando mi sono "svegliato" Aurelia era a terra,immobile, con gli occhi sgranati, inanimata; sono arrivati subito dei dottori a portarla via mentre altri addetti trattenevano una Selene in lacrime, impazzita, urlava in preda al dolore.
In parte riuscivo a sentirlo, era così forte... Riuscivo a percepire anche dell'odio.
Non fui in grado di incrociare il suo sguardo.
Ciò forse mi rende un vile e forse è ciò che sono.
Tuttavia non capivo e nessuno mi diede una spiegazione di ciò che era avvenuto in quella stanza, di Aurelia, di Selene, di tutto insomma!
I miei compagni iniziarono ad evitarmi, alcuni per paura, altri invece per disprezzo e non si facevano remore ad esternarlo; e nessuno mi credeva quando affermavo di non avere minimamente idea di ciò che era successo.
Eppure mi conoscevano, almeno in parte.
Gli stessi scienziati alle mie insistenti domande si limitavano a rispondere <<il test si è concluso con successo>>, senza aggiungere altro.
Frederich fu l'unico a non voltarmi le spalle, sebbene anche lui non riuscisse a nascondere una profonda tristezza per l'accaduto.
Forse di tutta la faccenda lui fu quello che ne rimase più segnato, si fece carico dei miei timori, del dolore suo e di Selene.
E non era giusto, non era salutare; in fondo anche lui era così giovane.
Ma fu l'unico a capire tutta la faccenda, sia gli eventi che le ripercussioni sulle persone.
Non mi disse nulla a riguardo,ma non mi abbandonò; rimase mio "amico" ed ogni tanto riuscivamo ancora a ridere e scherzare,ma non durava mai a lungo.
Riguardo quel giorno, non ne parlammo quasi mai.
Le poche volte che gli posi qualche domanda lui fece finta di nulla, rispondendomi poco dopo sempre con la solita formula:
<<Sieg, io non ti incolpo di nulla perchè tu non sai nulla. Non costringermi a farti ricordare e a farti odiare.>>
Oushi
Guerriero
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Oushi »

Girl

We'll I'm not seventeen
but I've cuts on my knees
Falling down as the winter
takes one more cherry tree.


«Non ho mai avuto un buon rapporto coi miei genitori.»
Oushi, spogliata della sua divisa, aveva un aspetto sorprendentemente ordinario.
Forse era l'abitudine, ma Hjordis trovava che senza la sua uniforme, senza ciò che la definiva più chiaramente come un soldato, Lehner perdesse un po' della sua consistenza. Sembrava una ragazza così comune nei suoi jeans sbiaditi, mentre si frizionava le braccia sotto la felpa leggera per calmare la pelle d'oca dovuta al clima di Esthar che, a dispetto della primavera in arrivo, era ancora freddo.
Una fuggitiva che torna a casa dopo tanto tempo.
«E in gran parte è colpa mia. Sono sempre stata una bambina viziata, ho sempre preteso quello che non potevano darmi.»
Tirò fuori il pacchetto di sigarette e si fermò a guardarlo. “Il fumo uccide” recitava un'etichetta incollata sopra. Lo rimise in tasca.
«A volte mi chiedo se sono refrattaria all'amore. Non è che non sia in grado di provarlo o di capirlo, ma mi spaventa. Mi spaventa l'idea di dipendere da qualcuno, perché se c'è una lezione che i miei mi hanno insegnato è che l'amore non viene mai capito come dovrebbe, e viene sempre tradito.»
Si decise a prendere una sigaretta dal pacchetto, ma la lasciò appesa alle labbra senza accenderla.
Oushi indugiava davanti al cancello d'ingresso di una palazzina, un edificio antiquato ma solido, identico ai molti altri che si affiancavano a lui lungo la strada. Era un quartiere tranquillo, periferico, quasi un mondo a parte rispetto alla frenesia del centro e ai suoi svettanti palazzi di vetro e alluminio. Grattò via dello sporco da uno dei campanelli, così, per temporeggiare.

Avevano appena lasciato FH. Hjordis era ancora placidamente immersa nelle emozioni e dei ricordi agrodolci che i giorni trascorsi in compagnia del figlio le avevano regalato, quando la cadetta le aveva rivolto una singolare richiesta: desiderava che l'accompagnasse in un luogo, una volta giunti in città. Non le era chiaro il perché avesse scelto proprio lei, ma decise di accettare senza fare domande. Dopotutto Esthar era una città sconosciuta, uno scenario diverso da tutto ciò che aveva avuto occasione di incontrare nei suoi viaggi: poteva essere un'esperienza interessante.
Ma Oushi si era chiusa in un silenzio di tomba appena avevano messo piede fuori dal Garden e ogni tentativo di fare conversazione era caduto nel vuoto. D'un tratto era stata talmente presa dalle sue riflessioni da scordarsi della sua esistenza. Hjordis aveva capito subito che doveva esserci una ragione molto particolare dietro al suo comportamento. Aveva bisogno della sua presenza lì in quel momento, perché c'era qualcosa che non riusciva a fare da sola; l'aveva assecondata, camminando sulla sua scia senza chiedere niente, mantenendo il giusto distacco, ma facendole capire che era lì e non se ne sarebbe andata. Dopo un lungo cammino Lehner si era fermata e, piena d'imbarazzo, aveva annunciato: ecco, questa è casa mia.

«È difficile trovare il giusto modo di amare una persona. O forse è proprio l'amore a creare una barriera, a volte, che ci impedisce di renderci conto di altre cose. La verità è che ogni genitore è convinto di capire i propri figli tanto quanto i figli credono di capire i loro genitori.»
Hjordis aveva parlato con la sua consueta chiarezza, guardandola dritta negli occhi, senza timore di ferirla. Oushi non riuscì a sostenere il suo sguardo e lo distolse presto, dandole le spalle e appoggiando la fronte al portone.
Voleva essere indipendente, ma finiva sempre col cercare delle madri surrogato – Vivien, Mikhol, Hjordis – alle quali si attaccava morbosamente tentando di riempire il vuoto che la sua vera famiglia le aveva lasciato nel cuore.
Andare lì era stata una pessima idea.
Voleva dimostrare di essere abbastanza grande da affrontare i suoi demoni a testa alta, senza farsi più frenare dai sensi di colpa, ma ora che ci era arrivata così vicino compiere il passo finale sembrava impossibile.
La porta dell'edificio si aprì con un cigolio e una signora di mezz'età, un po' appesantita ma elegante e distinta, uscì trasportando dei sacchi della spazzatura. Hjordis vide i muscoli della mascella di Oushi contrarsi e capì.
La donna si avvicinò e le guardò incuriosita, chiedendosi perché stessero lì davanti sbarrandole la strada.
«Scusate, dovrei uscire.» Aveva un tono di voce gentile e sottomesso.
«Certamente, ci scusi.» Hjordis spostò di peso la compagna che si era pietrificata sul posto, liberando il passaggio.
«State aspettando qualcuno?»
Oushi si era abbassata il cappuccio della felpa fino al naso e si era allontanata di qualche passo, battendo in ritirata.
«Sì, ma sembra che non siamo arrivate nel momento più opportuno.»
«Siete in anticipo?»
«Credo di sì.»
«Se mi dice chi cercate posso provare a chiedere. Il palazzo non è grande, ci conosciamo tutti.»
«Non è necessario. Grazie comunque, torneremo un'altra volta.»
Hjordis sentì sussultare la Seed, che però non fece altro. La donna sorrise, gettò i rifiuti e tornò in casa.

«Mi dispiace.» Oushi si levò il cappuccio, imbarazzatissima, ma questa volta Hjordis non fu comprensiva. Riprese il cammino senza più degnarla di uno sguardo.
«Ho detto che mi dispiace!»
«Non mi hai fatto alcun torto, non è con me che devi scusarti. Solo... ti credevo migliore di così.»
Si fermò poco lontano, voltandosi e trovando gli occhi lucidi e grandissimi di Oushi che le chiedevano una spiegazione. Era davvero diversa: più piccola, più fragile.
«Ostenti una gran sicurezza quando ti trovi in Garden, dimostrandoti così sfrontata da risultare insolente: eppure i tuoi occhi non celano mai la verità, perché non hai timore di mostrare te stessa agli altri. Credevo che la tua fosse un'onestà un po' rozza, ma limpida. Invece sei un falso.»
Oushi sentì il cuore stringersi nel petto. Aveva di nuovo sedici anni e una gran voglia di scappare a nascondersi. Si era illusa di essere cambiata, cresciuta, ma non ci era arrivata nemmeno vicino.
«È molto facile sentirsi superiori a coloro che non riteniamo degni della nostra stima, lo è meno quando dobbiamo confrontarci con le persone verso le quali proviamo affetto. E tu, a dispetto di quel che dici e che mostri attraverso le tue azioni, hai troppa paura di essere respinta da quelle persone per essere totalmente onesta con loro.»
Aveva la gola secchissima. Guardò in alto, ricacciando indietro lacrime di nervosismo. Grassi nuvoloni carichi di pioggia stavano oscurando il cielo.
Finalmente accese la sigaretta che l'aveva tanto tormentata e inspirò a grandi boccate.

«Avevo dodici anni, facevo ancora le medie. La mia vecchia scuola non è lontana da qui. Ricordo che c'era una rete a delimitare il cortile, ma era molto vecchia e appena provavi a tirare ti rimanevano in mano tutti i pezzi. Io pesavo dieci chili bagnata e potevo passare dappertutto. Un giorno sono riuscita ad aprire un buco nella recinzione abbastanza grande da scivolare fuori. Mi sono graffiata ovunque ma non me ne fregava niente, volevo solo scappare via.»
«Ero malata. In quel periodo ero sempre nervosa, perché i crampi allo stomaco mi tenevano sveglia tutta la notte e perché delle compagne di classe continuavano a prendermi in giro. Io, per ripicca, avevo preso i loro zaini e li avevo svuotati fuori dalla finestra. I bambini sanno essere crudeli.»
Fece una pausa, richiamando a se ricordi spiacevoli.
«Volevo scappare, ma non sapevo dove andare. Così corsi fino a lì, fino a quel marciapiede, e vi rimasi seduta per ore, finché mia madre mi trovò. Era spaventatissima. Sfogavo sempre la frustrazione sui miei genitori perché non sapevo con chi altri prendermela, e perché volevo vedere quanto a lungo mi avrebbero permesso di tormentarli prima di gettare la spugna.»
«Ma quando mia madre mi vide non mi picchiò, né mi urlò contro. Scoppiò a piangere. Fu uno spettacolo orribile; un bambino non dovrebbe mai veder piangere i suoi genitori.»
La sigaretta si era spenta da sola tra le labbra, praticamente ignorata. Un ponticello di cenere resisteva aggrappato al filtro arancione.
«Ho continuato a sfidarli e a ferirli per anni. Volevo che mi allontanassero, perché se fossi rimasta con loro li avrei distrutti. Ho lottato e alla fine ho ottenuto quello che volevo, come sempre.»
Sorrise con un'amarezza che colpì Hjordis. Oushi lo notò e scoppiò a ridere.
«So essere melodrammatica quando voglio!»
Si stiracchiò, allungando entrambe le braccia verso il cielo.
«Ho paura di essere respinta. Ho paura di rientrare nella loro vita e creare altri problemi. Probabilmente credono che sia morta, ed è meglio che continuino a pensarlo.»
La mano di Hjordis si mosse prima che il sangue le arrivasse al cervello, schiaffeggiandola violentemente. Alcune gocce iniziarono a picchiettare l'asfalto.
«Non c'è niente che angosci un genitore più del destino dei suoi cari.» L'Ajsynn chiuse la mano a pugno, ma l'abbassò al suo fianco. Il pensiero della figlia e del marito dispersi la raggiunsero all'improvviso. Ne aveva trovato uno, ma si era trattato di un puro e semplice caso: e se non fosse stata più così fortunata?
Oushi si massaggiò la guancia, sfiorando la cicatrice.
«Mikhol e Vivien in questa dimensione sono ancora vivi. Dovrebbe rendermi felice, invece sono spaventata a morte.»
L'acqua iniziò a scrosciare dal cielo, scendendo violentemente su entrambe. Oushi alzò il volto al cielo e lasciò che le scorresse addosso come una cascata.
«Li voglio, ma non posso averli perché il pensiero di tornare a far parte delle loro vite e di ferirli ancora mi fa venire il voltastomaco. Mi ucciderei piuttosto.»
Era fredda e pungente, totalmente priva di clemenza.
«Non voglio distruggerli ancora.»
Hjordis la imitò. Era pioggia sporca, portava l'odore acre della città, ma era travolgente in maniera piacevole: il suo rumore copriva i pensieri.
La figlia e la madre rimasero lì per un po', prendendosi una pausa.
«Non devi distruggere nessuno. Devi solo imparare a perdonare i tuoi errori.»
«È difficile.»
«Lo è. Ma è ciò che significa diventare adulti.»
«Essere adulti fa schifo.»
Hjordis sorrise, riconoscendo un tono che aveva sentito tante volte quand'era più giovane e correva dietro a due figli irrequieti. Le scompigliò i capelli.
Si allontanarono, alla ricerca di un rifugio dalla pioggia. Avrebbero passato il resto del pomeriggio in qualche modo, cercando di lasciarsi alle spalle i pensieri tristi. Oushi giurò a se stessa che sarebbe tornata, prima o poi.
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Nightmare/dark sephirot »

Selene [3]

Resoconto test di affinità sul campo 01,soggetti Siegmeyer ed Aurelia


Va precisato che, sebbene il test abbia fornito tutti i dati necessari ed in molti casi confrontabili con le previsioni, servirà comunque del tempo per una vera e propria analisi su di un campo di battaglia non sterile e incontrollato.
Inoltre i dati a seguire si basano su delle ipotesi che (mi auguro) possano essere prese per buone o l'output risulterebbe parzialmente o interamente falsato.
Tali ipotesi sono:

[*]-Assenza di shock emotivi a medio o lungo termine
[*]-Assenza di disturbi psichici in generale
[*]-Assenza di elementi patogeni
[*]-Bioritmi regolari
[*]-Delay della risposta neurale alla variazione di anima trascurabile
[*]-Compatibilità muscolare >80%
Detto ciò, l'analisi a posteriori dell'esperimento dovrà necessariamente contenere qualche ulteriore ipotesi, in quanto oltre alla componente motoria va valutata anche quella emotiva; del resto è il nostro lavoro.

I soggetti scelti godono di un ottimo tasso di affinità e ciò li rende i più adatti al test, senza contare che lo scopo non è giudicare le loro funzionalità motorie e la capacità di apprendimento dello stile di combattimento assegnato, bensì valutare quanto le loro peculiarità influiscano in battaglia.
Dai precedenti esperimenti risulta che i due hanno un processo inverso di trasmissione dati: mentre Siegmeyer rende disponibili i suoi ricordi all'anima, Aurelia durante lo switch psichico si limita a sovrascrivere le informazioni. Per usare un'analogia elettronica, è come se i cervelli dei due soggetti fossero gestiti da due cpu che attingono a diverse memorie; le varie identità delle persone possono essere identificate come dei dischi rigidi, la memoria a breve termine come una ram mentre alcuni oggetti quali i loro ciondoli sono dei dischi esterni.
Quando avviene lo switch, la cpu passa dalla memoria fissa interna a quella esterna. Durante questo passaggio, nel caso di Siegmeyer, la cpu non scollega subito la memoria interna e questo permette all'anima di attingere ai ricordi precedenti. Tuttavia i ricordi accumulati durante l'arco di tempo dello switch non vengono registrati nel disco fisso ma semplicemente sulla ram ed è l'anima stessa a decidere se "fare un backup" per passare i ricordi prima dello switch back.
Nel caso di Aurelia, l'anima non può attingere ai ricordi dell'host,ma tutti i dati che crea vengono salvati automaticamente sul disco fisso.
In breve, Siegmeyer può ricordare o no cosa succede durante lo switch a discrezione dell'Anima.
Aurelia ricorderà sempre tutto ma l'Anima da lei hostata non avrà mai un quadro completo della situazione in cui si trova, ne avrà piena coscienza di essere solamente una "copia" e non l'originale.
Entrambe le caratteristiche hanno i propri pro e contro.
Sta di fatto che entrambi per poter attuare lo switch back hanno bisogno di un catalizzatore, per questo motivo abbiamo introdotto già negli anni passati l'uso del ciondolo.

Tornando all'esperimento, l'esito almeno dal mio punto di vista era abbastanza prevedibile: Aurelia, essendo la figlia dell'Anima utilizzata, godeva di una migliore affinità, anche a livello fisico. Tuttavia perdeva in capacità di analisi, puntodi forza si Siegmeyer che poteva contare anche e soprattutto sul passaggio dei ricordi.
L'anima hostata da Siegmeyer sapeva quindi cosa stava facendo e contro chi stava combattendo, poteva prevederne le mosse e rispondere in modo adeguato sebbene non velocemente quando Aurelia.
Per l'anima di aurelia, quello era solamente un nemico da eliminare.
Il dubbio era se la presa di coscienza che l'avversario di Siegmeyer, o meglio, dell'Anima di Siegmeyer fosse proprio Aurelia avrebbe influenzato o meno le reazioni di Selene/Siegmeyer, al punto di influire sull'esito del combattimento.
Ed effettivamente è stato così.
Selene/Siegmeyer si è limitato a schivare o parare tutti i colpi del soggetto 2,ma essendo messo alle strette e considerando che le armi utilizzate non erano semplici oggetti da allenamento ha reputato necessario un disarmo dell'avversario.
Qui ammetto che si è verificato un evento inatteso: al soggetto 2 mancava il ciondolo.
In parte la colpa è nostra, dovevamo farci caso, forse si è staccato durante il combattimento, forse l'ha perso prima; è stata una disattenzione collettiva. La conseguenza è stata la perdita dell'Anima nel momento del disarmo e l'impossibilità di tornare alla sorgente principale. Attualmente il soggetto 2 è in stato di coma, è possibile che in futuro (previo il ritrovamento del monile) sia in grado di riacquisire un'identità,ma le probabilità sono troppo basse anche solo per essere menzionate.

Le reazioni di Selene/Siegmeyer e della vera Selene erano prevedibili: la prima ha ben pensato di non passare i ricordi dell'accaduto all'host, un gesto di compassione tipico della Seed in questione; La controparte reale chiaramente ha subito un crollo psicologico e per l'incolumità di molti membri del centro, tra cui Siegmeyer e Selene stessa, sarà opportuno internarla.
Bisognerà monitorarla giornalmente, perchè in fondo sa che può incolpare chi vuole ma in fin dei conti è stata lei stessa ad offrire le sue armi per il test, a dare il nulla hosta per la figlia ma soprattutto sa che chi ha combattuto in quella stanza era lei; quello era il suo stile, quella era la sua aggressività.
Un'aggressività che teneva solo per le missioni e per i combattimenti ma che ha finito per danneggiare la figlia.

In conclusione, sono soddisfatto dei risultati ottenuti e non ho rimpianti; e dovrebbe essere così per tutti coloro che hanno contribuito al test, in fondo conoscevano la prassi: non si interferisce durante il test.

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schwarzlight
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Re: FanFic Garden

Messaggio da schwarzlight »

Come da titolo, avete due scelte: leggere un post serio, e in quel caso lasciate chiusi gli spoiler, o rovinarvelo con cose fuffe che non ho potuto fare a meno di inserire.
Credits: buona parte del secondo spoiler è opera di Hjørdis, sia chiaro =°D



Choices



Aveva osservato il Garden allontanarsi, appoggiata placidamente a una balaustra. Aveva atteso fino all'ultimo per scendere - non voleva domande, non voleva gente fra i piedi che tentasse di convincerla a restare, che ne sapevano loro.
Non aveva provato nulla.
Alcuni cadetti e Seed che aveva incrociato nei corridoi l'avevano guardata incuriositi, mentre percorreva l'atrio verso l'uscita della struttura con un borsone in mano. C'era Pip ad attenderla.
C'era anche Rina, che non le chiese niente - Rina sapeva sempre tutto - e che invece la salutò aggrappandosi al suo collo di peso e lasciandola poi andare per fissarla con un'espressione che non le piaceva affatto. Stava tramando qualcosa. Lo vedeva da quel suo sorrisetto assolutamente poco rassicurante.
Non aveva intravisto Raiden neanche per sbaglio. Non lo vedeva da giorni, in effetti, e andava bene così. Sembrava che facesse di tutto per evitarla. Ogni tanto continuava a chiedersi quand'era che effettivamente si era conclusa la loro relazione; ogni tanto si chiedeva perfino se fosse mai cominciata davvero.
Dall'altra parte, invece, c'era Arne, che al contrario sembrava trovarla senza fatica, senza nemmeno tentare. E lei si lasciava trascinare dalla sua presenza, dalle sue parole, con una naturalezza sconvolgente. Era il suo modo di cercarla, tramite il confronto tra due mondi diversi, eppure a volte simili. Il suo modo di raccogliere quei frammenti di sé che le sfuggivano, che non tutti riuscivano a scorgere o capire a fondo. Ed era il modo in cui l'aveva attirata a sé, in cui la stava legando alla propria esistenza.
Se le avesse porto di nuovo la mano, non solo l'avrebbe afferrata subito senza indugio, ma non sarebbe mai più stata in grado di lasciarla.
- Spero che tu non sia qui con l'intenzione di sfoderare la tua espressione da cucciolo bastonato, perché non mi convincerà a restare.
- Ahahahah, no, no! Ci tenevo a salutarti di persona, piuttosto, visto che... be', non sono sicuro di poter dire "arrivederci".
Entrambi ignorarono il sottofondo a base di "Ma cicci che stai dicendo!" fornito da Rina, e si strinsero la mano in segno di saluto.
- Mettiamola in questo modo: anche se deciderò di lasciare il Garden, potrete pur sempre assoldarmi in caso di bisogno... potrei farvi uno sconticino!
- Certo, e poi finiremmo sul lastrico davvero! Be'... alla prossima, allora.
- Sì, alla prossima!
Varcò il portone, scendendo poi sul molo d'attracco apposito per i Garden.
Spoiler
Si girò solo un'ultima volta, dopo aver sentito un gran capitombolare e qualcuno che la chiamava.
- LUCENERA, CA**O FAI. NON PUOI ANDAR VIA-ARGH!
Sieg-night venne scavalcato da Leon, che lo spinse da parte con più forza del necessario.
- ALEX! Non puoi lasciare il Garden e mollarmi in balìa di questa gente! Sei una delle poche persone più o meno normali, qui!
- Oh, sono sicura che sopravvivrai a questa tragedia... Addio~
E se ne andò definitivamente. Pip tornò subito alla plancia di comando, era inutile rimanere lì. Non poteva fare nulla se non sperare di rivedere Alex, in futuro. Prima di avviarsi si girò un attimo a osservare la figura di Leon, rimasto pietrificato all'ingresso. Decise di lasciargli il tempo necessario. Certo, non pensava che lui e Alex andassero così d'accordo.
In realtà, Leon stava solamente pensando al fatto che aveva perso l'occasione di provarci con la vice della sicurezza, proprio ora che era finalmente di nuovo libera. Perché, insomma, era pur sempre un gran bel vedere, e magari avrebbe anche potuto risolvere una volta per tutte il mistero delle sue tette. E lei avrebbe anche potuto starci, in fondo avevano dei background compatibili.
Mentre era immerso nei suoi pensieri, Oushi gli si avvicinò, appoggiandogli la mano sulla spalla in un modo quasi solidale. Leon la guardò, meravigliato e commosso da questo suo gesto di conforto, quasi incredulo. Poi lei tolse la sigaretta dalle labbra, per espirare il fumo in modo stanco, e lo guardò con risolutezza.
- Muovi il culo e torna ai comandi. Sei ancora tu il pilota.
E se ne andò, tornando a farsi i fatti propri.
Intanto, Siegmeyer si rialzò, stordito dalla botta di prima, guardandosi attorno scombussolato.
- Uhm... perché ho quest'immagine di Leon con le fattezze di un pollo starnazzante? Che abita sulla testa di Calien, per giunta.
Poi il Rinoa's ripartì.
***
"Datemi un'occasione, e me ne andrò."

- Allora vattene.
Aveva già deciso. Ma quelle due uniche parole erano state come lo sprone definitivo alla sua determinazione, la conferma di cui non sapeva avere bisogno.
- Ti seguirei senza esitare.
Arne aveva tutto ciò che poteva spingerla a riporre la propria fiducia, e la propria vita, nelle mani di qualcun'altro. Era il comandante che avrebbe seguito ciecamente anche negli abissi più oscuri, se l'avesse ordinato. Il re che non avrebbe potuto tradire per un compenso più alto.
...L'uomo che avrebbe voluto al suo fianco.
E no, no, no, no. Era sicuramente confusa. Colpa di quella stupida mentalità da mercenario, ecco. Di sicuro. Sì.
Era già accaduto, una volta, che lasciasse tutto, i propri doveri compresi, per seguire qualcun'altro. Era lo stesso identico tipo di ragionamento che aveva fatto su Ivalice, a Rozaria.
No, be', era un po' diversa la questione.
Recuperò il bagaglio da dove l'aveva lasciato cadere, e si avviò verso la città.
A ripensarci era da un bel po' che non si lasciava più trascinare dall'istinto. Senza nemmeno rendersene conto, aveva cominciato a pensare in modo fin troppo razionale: troppi dubbi, troppi "ma" e "se", troppi "forse sto sbagliando". Prima si era sempre lasciata guidare dall'ispirazione del momento, diciamo, da sensazioni che a volte erano anche abbastanza vaghe. Non c'era tempo per soffermarsi a pensare sui possibili risvolti delle decisioni, e nemmeno per i tentennamenti. Voleva tornare ad essere così, riprendere possesso delle sue certezze.
Arne era poco più lontano.
Era quasi assurdo come fosse arrivato al momento giusto, una coincidenza fin troppo perfetta per essere creduta tale. Lui sarebbe potuto essere l'occazione che cercava. L'occasione di cambiare, di tornare, di ricominciare, di concludere, di sentire, di provare. L'occasione per respirare nuovamente, per scoprire cosa fosse giusto fare, cosa volesse davvero.
- Sei arrivata!
L'occasione di essere.
Il sorriso dapprima nervoso si distese all'istante. Ora andava tutto bene.
Spoiler
O forse no. Perché se c'era qualcosa che aveva imparato, durante la sua permanenza al Garden, era che in ogni situazione poteva spuntare all'improvviso un imprevisto assolutamente stupido e assolutamente senza senso.
E il tutto avvenne nel momento più sbagliato possibile. Al solito.
Arne le accarezzò con tenerezza una guancia, prima che l'atmosfera fosse spezzata da una suoneria fracassona. Rivolgendole uno sguardo interrogativo, l'uomo la osservò tirare fuori dalla tasca un cellulare e fulminare con evidente frustrazione l'incauto che aveva chiamato.
Sogghignò, indicandole di rispondere con un cenno del capo e trovando evidentemente quel diversivo qualcosa di divertente, tutto sommato; per Alex invece, interrotta sul più bello, la gravità dell'accaduto era una sciagura appena meno intensa di un fallout nucleare.

- Quante volte? - ridacchiò la dea.
- Cosa?
- Quante volte l’avete già fatto?
Alex allontanò il cellulare dall’orecchio e scrutò inorridita il sorridente autoscatto di Rina.
- Non l’abbiamo fatto. - replicò neutra, spiando di sottecchi Arne che, per fortuna, sembrava distratto da una conversazione con un mercante.
- Non ci credo.
- Fallo, perché due persone adulte, razionali e dotate di un eccellente autocontrollo…
- Ma cicci, non sarai lesbica?
- Rina… - ringhiò, prima di guardarsi alle spalle.
- A trovarlo io, uno così…
- Perché, Recks non è all’altezza del profilo?
- Spiritosa… Solo perché a te è caduto dal cielo, non penserai davvero che sia facile…
- Come non detto.
L'altra bofonchiò qualcosa d’inintelligibile.
- Fingo di aver capito.
- Insomma, è passabile se lavori di fantasia… Ma non è detto sia l’uomo della mia vita.

"Nessuno avrebbe tanto fegato, Rina. Nessuno."

- Che combinate?
- In che senso?
- Se non stai facendo l’unica cosa buona, sensata e giusta di cui una donna in età fertile dovrebbe occuparsi ad avere tra le mani Arne Brynjarving, raccontami come stai perdendo il tuo tempo!
Alex si girò a guardare la sagoma del Garden ancora visibile all'orizzonte. Quasi riusciva a immaginarsi Rina affacciata a una delle grandi vetrate della mensa, intenta a studiare F.H. con un binocolo alla ricerca sua e di Arne. Con dei muffin e una bella cioccolata calda. Ed era una scena così credibile che le diede i brividi.
- Sto... "ammirando" la tua preoccupazione per me.
"E pensando a un modo per mandarti a quel paese in modo gentile. O anche no."
- Dovresti ammirare ben altro! Che possibilmente non dovrebbe avere nulla addosso...
- Rina.
- Sì?
- E' ora che basta.
- ...ok. Umpf.
E adesso era di nuovo lì, su quel molo, incapace di prender sonno, con la città avvolta nel buio e nel silenzio di una notte priva della frenesia tipica delle grandi metropoli, o dello stesso Garden, che mai era completamente assopito.
Non si era pentita della sua scelta di fermarsi a Fisherman's Horizon. Forse stava cominciando a sentire la mancanza del Rinoa's, ma era più una sensazione data dall'abitudine e dalla meccanicità dei suoi doveri all'interno della struttura, che non da un vero e proprio senso di nostalgia.
Le sembrava tutto così distante, ora. Tutte le sue ricerche, i suoi affanni... preoccupazioni inutili.
Per tutto quel tempo si era trovata inconsciamente a cercare una patria, una casa a cui fare ritorno, un luogo in cui potesse rimanere in pace e senza costrizioni.
E Arne stava diventando quel punto fermo.
Lui era la sua scelta.
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Aenima
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Die soldaat - Les Enfants Terribles

Messaggio da Aenima »

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When we start killing
It's all coming down right now
From the night that we've created
I wanna be awakened somehow

(I wanna be awakened right now)

When we start killing
It all will be falling down
From the hell that we're in
All we are is fading away
When we start killing
Come nascono i Soldati?
E' uso comune credere che un Soldato nasca quando il popolo necessita di protezione, o quando una corona viene poggiata sul capo di un Monarca animato da ambizioni di conquista. Quando le città non hanno altra scelta che attaccare per difendersi o per espandere il proprio dominio ad altre terre, è allora che si rende necessaria l'istituzione di un corpo armato.
Esistono però diversi Soldati.
I Mercenari, che vendono le proprie armi al miglior offerente.
Le Guide, i Generali, i Leader animati da svariati ideali a capo di un manipolo di uomini disposti a sacrificare le loro vite in nome di una causa superiore.
I Signori della Guerra, che fanno della guerra il loro più grande diletto.
Potremmo soffermarci su tante altre sfaccettature della vita militare, ma tutto ciò sarebbe inutile, poiché quello di cui parleremo in queste righe non sarà il solito soldato. Per esaminare il caso di Raiden è dunque d'obbligo dare uno sguardo al suo passato e a quali fatti lo hanno reso il soldato che è diventato. Per farlo, possiamo iniziare il racconto dai tempi del suo apprendistato, quando, ancora ragazzino, venne strappato alla sua famiglia per divenire parte del progetto Les Enfants Terribles, volto alla creazione di un corpo militare di élite di esclusivo appannaggio del governo Esthariano, progetto poi naufragato dopo la sconfitta della Strega.

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« E dai, bello. D'accordo lo studio, ma tu esageri! Cos'è, hai intenzione di diventare un Generale o simili? »
Le parole scivolarono lente lungo la pelle del ragazzo che, di spalle, concentrava il suo sguardo e i suoi pensieri solo sul libro che aveva sotto gli occhi. L'arte della Guerra di Sun Tzu. Una lettura che il Maestro aveva ritenuto indispensabile per i suoi allievi tanto da costringerli a leggerlo e a rileggerlo fino a quando non avessero incamerato ogni singolo concetto espresso nel testo.
L'aneddoto ironico dell'amico non era sfuggito a Raiden, che di generali e soldati, in quel momento, ne aveva la testa piena.
« Alza la testa da quel manuale polveroso e vieni fuori. Dicono che stanno organizzando un deathmatch nell'Arena. Devi venire per forza! »
Questa volta le parole dell'altro riuscirono a catturare la sua attenzione. Non tanto perché si fosse annoiato di leggere, quanto più perché se davvero stavano mettendo su un deathmatch, lui, effettivamente, non poteva assolutamente mancare. Lui, che a soli 16 anni era diventato la guida di tutta l'Accademia.
Le sue dita scivolarono sulla copertina del libro, chiudendolo con un tonfo secco.
« Hai ragione. » disse con voce atona « Non ho nessuna intenzione di diventare un vecchio Generale la cui più grande fatica è stare seduto dietro una scrivania a dettare ordini. Io voglio scendere in campo. »
Sul volto del giovane andò delineandosi un sorriso, mentre il suo amico gli rispondeva convinto con un cenno del capo, prima di reindossare il soprabito della sua divisa e uscire fuori.
I corridoi dell'Accademia erano sempre deserti nel primo pomeriggio. Gli Allievi, infatti, trascorrevano quelle ore a letto a riposo oppure a bighellonare nel cortile della struttura prima che riprendessero le rigide sessioni di training cui erano quotidianamente sottoposti. Raiden allungò lo sguardo verso l'ampio cortile posto al centro dell'Accademia, scorgendo qua e là sagome di studenti stanchi in cerca di riposo tra una lezione e l'altra, tra un allenamento e l'altro. Nel mezzo del chiostro si ergeva una fontana con una grande statua di marmo bianco, circondata da capo a capo da una scritta.
"In adversa ultra adversa - Laguna Loire"
Inarcò un sopracciglio, scettico.
Ancora non riusciva a capire chi avesse il coraggio di sponsorizzare un progetto simile. Un'accademia militare per creare soldati scelti, edotti all'Arte della Guerra sin da bambini. Il cosidetto progetto Les Enfants Terribles. Raiden non ricordava nulla della sua famiglia, ammesso che ne avesse avuta una, al pari di tutti gli altri bambini e ragazzi accolti nella struttura. Era singolare, infatti, notare come, alla domanda Chi sei e da dove vieni? tutti rispondessero allo stesso modo, come un disco rotto.
Non so, non ricordo. Sono sempre vissuto qui
Come se d'incanto si fossero materializzati lì dal nulla, embrioni senza madre, ragazzi senza famiglia. La verità era che i figli dei migliori soldati di Esthar venivano precocemente strappati alle loro famiglie e sottoposti, sin dalla tenera età, a ricerche, esperimenti, allenamenti il cui unico scopo era quello di produrre il soldato perfetto, l'infallibile soldaat, la cui unica missione, il cui unico scopo di vita sarebbe stato difendere la propria patria.
Non dovettero camminare molto. A discapito delle sfarzose apparenze, l'Accademia non era una grande scuola e si poteva dire che di maestoso, fatta eccezione per il cortile, la fontana con la statua e l'estetica degli edifici, non avesse proprio nulla. Così bastò una rampa di scale per giungere nell'atrio e da lì svoltarono a sinistra, portandosi all'esterno della struttura, dal lato opposto rispetto al cortile, nel vasto Campo d'Addestramento della scuola.
Ad accoglierli fu proprio il Maestro, un uomo sulla sessantina, alto e dinoccolato, provvisto di una muscolatura tonica -nonostante l'età non propriamente giovane- che ben sorreggeva i suoi 185 centimetri di altezza. Portamento fiero, volto perennemente solcato da un'espressione severa e da un paio di folti baffi, lunghi capelli grigi che, mossi, ricadevano dolcemente lungo le sue spalle e corporatura inusitatamente statuaria per l'età conferivano al Maestro un'aria tanto austera da incutere timore anche al più ardito degli uomini.
« Ben arrivati » disse con tono saldo e fermo « Raiden, ero certo che non mi avresti deluso. In nessun caso avresti potuto mancare. »
E come avrebbe potuto? Era diventato ben presto il fiore all'occhiello dell'Accademia, uno dei pochi a poter sostenere i ritmi incessanti di quel posto, l'unico a guadagnarsi il titolo di soldaat, di Campione dell'Arena per tre volte consecutive dopo la dipartita del precedente vincitore.
E adesso si apprestava a concorrere per la quarta.
L'Arena brulicava di ragazzi giunti lì per lo stesso motivo: mettere sul piatto la propria vita per cercare di portare a casa la vittoria. Chiunque fosse stato ritenuto inadatto ai canoni dell'Accademia sarebbe stato abbandonato a sé stesso, per la quale ragione tutti i presenti erano disposti a giocarsi qualsiasi carta presente nel loro mazzo pur di dimostrare di essere all'altezza.
Di essere il migliore.
Singolare era il fatto che ognuno dei guerrieri avesse il volto coperto da una maschera. Ma era parte del gioco: il soldato è un soldato e nient'altro, per cui tutti sceglievano la maschera che più identificasse la propria bestia interiore e che più riuscisse ad incutere timore all'avversario. Lento, Raiden infilò una mano tra le sue vesti, cercando la sua dramatis persona. Trovatola, le sue dita si serrarono intorno al freddo metallo di cui era fatta la maschera, prima di coprire il volto del proprietario.
E, ora che aveva indossato la corona, poteva muoversi nel suo regno.
L'amico lo seguì innocuo, anche lui con una maschera a celarne il viso. Man mano che Raiden camminava, gli altri sembravano accorgersi della sua presenza e interrompevano ciò che stavano facendo, concedendosi qualche secondo soltanto per ammirarne il portamento. Era ben presto diventato un punto di riferimento nell'Accademia, dal momento che tutti si sforzavano di raggiungere il livello del giovane prodigio della spada. E di questo il Maestro non poteva altro che compiacersi: aveva dalla sua probabilmente uno dei migliori spadaccini mai visti all'opera e tanti altri ragazzotti che si ammazzavano di allenamenti per raggiungere il suo livello, con un complessivo incremento del livello dell'Accademia stessa. Perché, si sa, il meglio tende al meglio e il progetto stava dando i suoi frutti: quei ragazzi ben presto avrebbero servito la cara Patria nel migliore dei modi.
Ma può una sola persona disporre della volontà di molti?

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Il deathmatch, così come lo chiamava il Maestro, non era molto dissimile da un'arena di gladiatori. Pensandoci bene, era esattamente un combattimento tra moderni gladiatori: a turno, coppie di ragazzi si scontravano nell'arena, dopodiché il vincitore proseguiva oltre, mentre il perdente, se ancora vivo, veniva espulso dall'Accademia e nulla più si sapeva riguardo il suo destino, secondo un principio di eugenetica per cui soltanto i migliori avrebbero dovuto perpetrare la specie e portare avanti il Progetto.
La stessa arena ricalcava la foggia delle classiche fosse da combattimento dei gladiatori: una distesa della tipica sabbia rossa del continente di Esthar circondata da gradinate di spalti in marmo sui quali il pubblico, composto per lo più da politici, soldati e membri dello Stato Maggiore Esthariano, andava via via assiepandosi. Naturalmente, il Maestro e le principali Autorità presenti sedevano in Tribuna d'Onore, su comode poltrone di color rosso vinoso sormontate da una pomposa copertura la cui funzione era quella di proteggere le loro onorevoli teste dai caldi raggi del Sole che, specie a quell'ora del pomeriggio, battevano violenti sulla Terra rendendo l'aria torrida, quasi asfissiante.
Il Maestro si alzò per prendere la parola, seguito a ruota dalla platea, che scattò in piedi gridando a gran voce "Cornelius! Cornelius!" Cornelius B'nargin Martell era il suo nome, ma nell'Accademia era noto semplicemente come "Maestro" e nessuno osava chiamarlo diversamente.
« Illustri colleghi. E' con sommo piacere che vi accolgo qui nella nostra Arena » disse con voce fiera e roboante, indicando con un ampio gesto del braccio il campo di battaglia ai suoi piedi. Fragorosi applausi seguirono le parole del Maestro che, con un cenno delle mani, fece segno alla platea di fermarsi, così da poter continuare il discorso.
« Sono compiaciuto da tanto affetto. Dunque, non mi sembra d'uopo farvi aspettare ulteriormente: che il deathmatch abbia inizio! »
Mentre il Maestro faceva da cerimoniere, qualche metro più giù, i partecipanti alla tenzone andavano riunendosi nel tunnel che conduceva all'Arena, in attesa di essere chiamati a scendere in campo. L'aria era elettrica e la tensione così palpabile da poter essere tagliata con il coltello; i ragazzi, riuniti a gruppetti, parlottavano tra loro, ridevano, facevano battute oscene, cercando in tutti i modi di esorcizzare la paura che, volenti o nolenti, li attanagliava.
Paura dipinta sui loro volti, coperti dalle maschere da guerriero.
Raiden se ne stava in disparte, appoggiato con la schiena ad una parete del condotto, ignorando totalmente i discorsi altrui. Quella situazione non gli era più nuova, oramai sapeva cosa si provava ed aveva imparato a domare le emozioni che usualmente precedono una battaglia e questo senz'altro rappresentava uno dei suoi punti di forza. Tuttavia preferiva non essere disturbato, pertanto si teneva alla larga da tutti gli altri.
« Ehilà, campione! Pronto per gettarti nella mischia? Anche se...domanda retorica, la mia... »
La voce del suo amico lo riportò alla realtà. Caius Freihart, questo era il suo nome. Era l'unica persona all'interno dell'Accademia con la quale Raiden avesse stretto un rapporto sociale che andasse oltre il semplice saluto, rapporto che, tuttavia, era ben lontano dai canoni dell'amicizia normalmente concepiti. Si trattava più di un forte senso di cameratismo che non di amicizia vera e propria, anche se Caius soleva usare il termine amico per indicare il suo compagno d'arme. Nonostante ciò, Raiden era particolarmente legato a Caius e sapeva di essere per il ragazzo un punto di riferimento, un modello da imitare, un esempio da seguire, pertanto si sforzava di non deludere le sue aspettative.
Sì, era pronto. A tutto, fuorché a quello che stava per accadere.
Un brivido corse lungo la sua schiena quando il Maestro annunciò i nomi dei guerrieri che, di lì a poco, avrebbero solcato la polvere dell'Arena.
« Raiden e Caius Freihart. »

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Non aveva scelta.
Avrebbe dovuto combattere. O lui, o Caius. Quel giorno, il sangue di uno dei due avrebbe sicuramente impregnato la polverosa sabbia dell'arena, prima di essere ricoperto da altra sabbia e da altro sangue.
Sangue e sabbia. Sconfitta e vittoria
Raiden avrebbe dato il massimo, per due ragioni fondamentali: doveva trionfare, non poteva concedersi il lusso di perdere e poi non aveva intenzione di risparmiarsi contro il suo compagno, nonostante il loro legame, per una questione di rispetto nei confronti dell'avversario. Il giovane spadaccino partiva da favorito, ma non per questo non avrebbe spremuto ogni singolo muscolo del suo corpo in quella sfida. Non farlo avrebbe significato sminuire il valore del suo rivale e Raiden nutriva una profonoda stima verso Caius, un ragazzo che, nel cercare di emulare il compagno, si dedicava anima e corpo agli allenamenti.
Gli avrebbe dunque offerto la sua occasione.
Avrebbe permesso al suo compagno di mettersi in mostra, compagno che, sia pur con affetto, avrebbe dovuto sconfiggere.
I due si portarono a centro arena e lasciarono che le loro lame si incrociassero in segno di reciproco rispetto prima che il Maestro, con un sonoro e vibrante colpo di gong, desse il via alla sfida.
« Aspettavo da tanto questo momento, Raiden...forza, non farmi spazientire! »
Caius affrontò il suo avversario con coraggio. Levò la spada sopra la testa, pronto al duello, stringendo l'elsa in una morsa compulsiva. Raiden, dopo essersi avvicinato a lui di un paio di passi, si fermò. Caius potè vedere i suoi occhi. Erano azzurri, di un azzurro che trascendeva l'umano, avvicinandosi di più a quello del ghiaccio inanimato.
Accadde tutto rapidamente.
La spada di Raiden si mosse, fendendo la polverosa aria dell'arena. Caius la intercettò con un gesto secco del suo braccio destro, che andò a descrivere un arco a mezz'aria, facendo sì che le due lame impattassero con un sonoro clangore. Il giovane parò un secondo fendente, un terzo e poi un quarto, arretrando infine di qualche centimetro. Un'altra raffica di colpi lo costrinse ad arretrare ulteriormente. L'aggressività di Raiden sembrava non avere pari: Caius si batteva con onore, ma il divario tecnico e fisico tra i due emerse prepotente.
Le spade tornarono a incrociarsi, a scontrarsi, colpo dopo colpo, parata dopo parata, fino a quando il respiro di Caius iniziò a farsi pesante per la fatica. E, alla fine, Caius fu lento, troppo lento. La lama di Raiden arrivò a graffiare il braccio sinistro del ragazzo, lasciando che gocce di sangue cremisi venissero fuori prepotenti, andandosi a mescolare con la torrida sabbia rossa sotto i loro piedi.
Ma Caius non si arrese. In un impeto di disperato furore tentò un ultimo assalto al nemico, la spada impugnata a due mani, un attacco carico di tutta la forza che gli rimaneva. La parata di Raiden fu brutale: il giovane spadaccino, impugnando anch'egli la sua spada a due mani, descrisse un movimento diametralmente opposto a quello eseguito dal suo avversario, caricando la lama con forza. Le due spade si incrociarono nuovamente ma, complice la ferita subita, stavolta la presa di Caius non fu particolarmente salda e la sua lama volò via, scagliata tra la sabbia polverosa, a far compagnia al suo sangue. Il giovane venne a trovarsi così miseramente disarmato.
Era stato sconfitto, come da pronostico.
Il gong suonò nuovamente, decretando la fine del combattimento e subito l'arena esplose in un boato di applausi. Molti dei presenti avevano già visto all'opera il giovane Raiden, sapendo di cosa fosse capace, ma ad ogni sua performance gli applausi si rinnovavano come se fosse la prima volta.
« Complimenti, amico...c'era da aspettarselo, dopotutto...ma resti un grande... »
La voce di Caius era rotta dalla stanchezza e dalla cocente delusione per la sconfitta subita, ma il giovane non nutriva alcun risentimento verso Raiden. Temeva piuttosto che la perentoria sconfitta avvenuta sotto gli occhi del Maestro e delle autorità militari potesse inficiare la sua valutazione e la sua permanenza dell'Accademia. Non aveva altra scelta se non quella di continuarsi ad allenare e cercare di migliorare ulteriormente, seguendo le orme del suo amico.
Raiden non ebbe tempo di rispondere che Caius si era già allontanato dall'arena. Lo avrebbe raggiunto dopo, a deathmatch ultimato.
Il torneo continuò come da pronostico. Raiden vinse gli scontri successivi, guadagnandosi la vittoria e il plauso generale.
Qualcosa, tuttavia, andò storto.
Al momento della premiazione il giovane notò con sconcerto l'assenza di Caius. In queste occasioni l'amico era il primo ad esser presente per sostenerlo e la sua assenza gli suonò strana. Forse era troppo stanco o deluso per farsi vedere, o forse stava recuperando dalla ferita subita nello scontro. Lo spadaccino era talmente assorto nei suoi pensieri che quasi ignorò il Maestro che gli si era avvicinato per tendergli la mano.
« Cos'è, stai forse dormendo ad occhi aperti? Il vincitore infine sconfitto dalla stanchezza? »
La battuta pungente del Maestro lo riportò alla realtà. Ricambiò la stretta di mano nella speranza di divincolarsi il prima possibile per vedere che fine avesse fatto Caius, ma fu immediatamente bloccato dalle diverse autorità presenti che gli si avvicinavano per fargli i complimenti e per stringergli la mano a loro volta.
Quando quello strazio finì, rendendosi conto che, dopo tanto tempo, il suo amico ancora non si fosse palesato, non riuscì a trattenersi e, intercettato il Maestro, gli domandò a bruciapelo:
« Maestro...le chiedo scusa...ha forse avuto notizie di Caius? Dopo il nostro scontro non l'ho più visto e, insomma,ciò mi è parso strano... »
A quelle parole il Maestro si voltò lentamente, dando l'impressione di aspettarsi una domanda simile. Non era infatti minimamente sorpreso da tale interrogativo. La risposta fu tuttavia alquanto sibillina.
« Pensavo lo avessi capito. Ora non è il momento, ne parleremo a tempo debito »
Raiden annuì con ostentata sicurezza, ma in realtà non aveva capito un bel niente di cosa il Maestro avesse voluto dire. Fece così ritorno al dormitorio.
Se non avesse trovato lì Caius, allora sì, il Maestro gli avrebbe dovuto qualche risposta.

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I giorni passavano, ma di Caius nessuna traccia. Non aveva scelta, doveva parlare al Maestro. Perché se gli altri sembravano non porsi minimamente il problema, a Raiden importava eccome.
Il vecchio, tuttavia, lo batté sul tempo: fu lui a recarsi dallo spadaccino, non viceversa.
« Raiden » disse con voce salda ma spezzata dall'età « Posso parlarti? »
L'affermazione scatenò l'ilarità del ragazzo, che non riuscì suo malgrado a trattenere le risa.
« Aha! Da quando un Maestro deve chiedere ad un suo allievo il permesso di confidargli qualcosa? »
Scostò una ciocca di capelli argentei dal viso con un malizioso gesto della mano, saccente, tornando rapidamente ad assumere un contegno più serio e consono alla situazione. Quell'uomo non gli piaceva e Raiden sentiva venir via via meno il timore reverenziale che il Maestro soleva incutere ad ogni suo interlocutore. Ammirava tuttavia la fermezza di Cornelius, che non aveva accennato nessuna reazione davanti a quella provocazione. « Mi dica. »
« Perché ti comporti così, Raiden? » esordì, con voce asettica e tagliente « E' per il tuo amico, dico bene? Quel Caius »
Raiden non rispose, ma il suo volto era di per sé abbastanza eloquente, abbrutito com'era dalla rabbia. Ogni minuto che passava quell'uomo gli piaceva sempre di meno, ma non disse nulla, non lo interruppe. Era curioso di vedere dove volesse andare a parare.
« Di cosa ti stupisci? Dovresti saperlo... » continuò, col solito tono monocorde « Era palese che non fosse all'altezza dell'Accademia e l'esito del vostro scontro me ne ha fornito un'ulteriore conferma. Fattene una ragione, Raiden. E' stato espulso. »
Espulso.
Quella parola trafisse Raiden come un dardo. Conosceva le dinamiche dell'Accademia e sapeva fin troppo bene quale fosse il destino di coloro i quali si macchiavano della "colpa" di essere al di sotto degli standard previsti dal progetto. Costoro venivano espulsi, ossia abbandonati a loro stessi nelle lande desolate del continente Esthariano e se fossero riusciti a sopravvivere alle insidie e ai mostri che popolavano quei luoghi sarebbe dipeso soltanto da loro. Ma la realtà dei fatti era che tutti, chi prima, chi poi, morissero di stenti o sotto l'attacco dei mostri. Le probabilità che Caius fosse sopravvissuto a quell'inferno rasentavano lo zero, nonostante la speranza fosse l'ultima a morire.
Espulso.
La rabbia in Raiden finì col crescere ulteriormente, come se quella parola avesse gettato altra benzina su di un fuoco già ardente.
« Espulso, ma certo... Come ho fatto a non pensarci? » quelle parole fuoriuscirono dalle sue labbra come un sibilo « Mi dica una cosa, Maestro...lei crede davvero in questo progetto? »
Cornelius non rispose, limitandosi ad aggrottare le sopracciglia in segno di profondo scetticismo. Rimase in attesa, il Maestro, lasciando che Raiden proseguisse il suo discorso. Adesso era lui a voler vedere dove lo spadaccino andasse a parare.
« Glielo dico io. Lei non ci crede affatto, ma deve reggere il gioco, e per vanagloria, e per evitare di rendere consapevole il governo Esthariano di aver speso tanti soldi inutilmente. »
Stavolta il Maestro apparve visibilmente turbato. Era evidente che tutto si aspettasse fuorché una simile conversazione. Quel ragazzino di 16 anni era lì, davanti a lui, a spiattellargli senza mezzi termini quella che era la realtà dei fatti. Un affronto bello e buono, certo, ma non si poteva negare che Raiden in quel momento stesse dicendo il vero. Ma questo il Maestro mai avrebbe potuto ammetterlo, per nessuna ragione al mondo.
« Vanagloria? Dovresti ringraziarmi anziché criticarmi, ragazzino... » la sua voce si fece ora rigida, il tono severo e sprezzante « Se sei così forte è anche merito di questa fallimentare Accademia. Orbene, non mi sembra il caso di sputare nel piatto in cui si mangia... »
Aveva sentito abbastanza. Adesso era stufo.
La logica contorta e perversa di quel posto non gli era mai andata a genio ma fino a quel momento si era adattato per quieto vivere e per continuare ad allenarsi e a combattere a livello massimale. Ora, però, la sua pazienza sembrava esser giunta a saturazione e le parole del Maestro furono la goccia che fece traboccare il vaso.
« E quanti altri, insieme a me? Mi dica, Cornelius, quanti raggiungono gli obiettivi prefissati? 2, o forse 3 su 10 nella migliore delle ipotesi. Tutti gli altri invece cedono o sono espulsi. Quale aggettivo userebbe per descrivere un simile scempio, se non "fallimentare? »
Il Maestro perse il controllo. La calma serafica e statuaria che fino a quel momento lo aveva contraddistinto lasciò spazio all'ira impetuosa e Cornelius, forte della sua possente stazza, sembrò troneggiare sul giovane Raiden, urlando in tono imperioso:
« NE HO ABBASTANZA. SE LO REPUTI UN FALLIMENTO ALLORA VATTENE, COSI POTRAI RAGGIUNGERE QUELL'INETTO DEL TUO AMICO SE CI TIENI COSI TANTO! »
Pur apparendo come un moscerino a confronto con il Maestro, Raiden non si lasciò intimorire da una simile sfuriata. Rimase lì, immobile, senza accennare ad alcuna reazione, cosa che irritò ancora di più Cornelius, che cercò di colpire il ragazzo con un pugno. Raiden schivò il colpo e d'istinto reagì sgambettando il Maestro, che finì a terra.
« Come hai osato...questa me la paghi... »
L'uomo si alzò, facendo per aggredire Raiden con quanto vigore avesse in corpo, ma ciò che accadde in quel frangente aveva dell'imponderabile. Una lama di ghiaccio apparve tra le mani dello spadaccino nello stesso istante in cui il Maestro fece per mettergli le mani al collo, lama che, sotto la spinta delle giovani mani del ragazzo, trapassò l'uomo da parte a parte, mandandolo al suolo in una pozza di sangue.
Raiden rimase come paralizzato, ansimante e tremante davanti al cadavere di Cornelius Martell che giaceva riverso ai suoi piedi. Non avrebbe voluto mai e poi mai arrivare a tanto, ma il Maestro non gli aveva dato alcuna scelta.
Uccidere per non essere ucciso.
Difesa personale.
Erano queste le parole che ripeteva come un mantra nella sua mente per mettere a tacere i sensi di colpa che lo attanagliavano. D'ora in poi il Maestro non avrebbe più deciso il destino di altri ragazzi come lui. Ben presto la lama di ghiaccio si sarebbe sciolta sotto il calore del corpo e del sangue dell'uomo e non sarebbe rimasta alcuna traccia dell'arma del delitto.
Raiden si allontanò con disarmante serenità dalla scena del delitto.
Adesso era libero.
Adesso erano liberi.
La notizia della morte del Maestro non avrebbe impiegato molto tempo a fare più volte il giro dell'Accademia e ciò avrebbe potuto produrre un solo risultato: anarchia, ribellione.
« Riposi in pace, Maestro. Adesso ha smesso di decidere senza alcun criterio delle vite altrui... »

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Ciò che avvenne dopo è semplice da intuire: anarchia.
L'assassinio del Maestro da parte di ignoti fece piombare l'Accademia nel caos. Privata della sua guida spirituale dittatoriale, la scuola crollò su sé stessa, in un generale ammutinamento. Non c'erano più regole: gli allievi soldati, venute meno le catene nelle quali il Maestro li teneva segregati, guidarono un'unanime rivolta contro quella vacua e sterile manifestazione di potere rappresentata dall'Accademia stessa e, impadronitisi di diversi mezzi, lasciarono la scuola.
Non avrebbero potuto far ritorno a Esthar. O, almeno, non in quelle vesti. Ciascuno di loro avrebbe dovuto rifarsi una propria vita -ammesso che ne avessero avuta una fino a quel momento- e una propria identità da cui ripartire.
Erano destinati a diventare dei vagabondi, dei raminghi. Ma il vagabondare senza meta non può dirsi forse una delle più pure ed incondizionate forme di libertà?
Lo stesso destino toccò a Raiden, che abbandonò la struttura subito dopo la morte del Maestro. Le vicende di quel giorno, nonché l'esistenza della scuola stessa, vennero prontamente insabbiate dal governo Esthariano. Se la notizia di quell'indicibile fallimento noto come progetto Les Enfants Terribles fosse venuto fuori, il Governo avrebbe finito per trovarsi in una posizione che definire scomoda sarebbe poco: la realizzazione di quel progetto aveva comportato costi considerevoli, costi cui avevano partecipato numerosi finanziatori che di certo non sarebbero stati contenti di scoprire la fine che avevano fatto i loro capitali. Una simile notizia avrebbe finito per innescare così un effetto domino in cui l'ultimo tassello a cadere sarebbe stato proprio quello del governo esthariano. Pertanto, le autorità furono costrette ad ingoiare quel boccone amaro e a insabbiare il tutto, ricoprendo l'esistenza del progetto col segreto di stato.
Questo spiega perché i superstiti dell'Accademia non avevano altra alternativa se non quella di crearsi una nuova vita: erano pur sempre dei testimoni scomodi, vestigia di quel progetto fallimentare. Se i servizi segreti Esthariani avessero scoperto l'esistenza di uno di loro, il malcapitato sarebbe certamente stato messo a tacere senza troppi patemi d'animo.
Da qui prende inizio la storia di Raiden, nato da soldato e destinato a vivere e morire come soldato, senza avere molte possibilità di scelta.
Nessuno più del soldato vive la sua vita giorno per giorno, essendo pienamente consapevole del fatto che un giorno può esserci e quello successivo non più. Pertanto, il giovane spadaccino avrebbe vissuto la sua vita senza alcuna paranoia.
Se, un giorno o l'altro, il suo passato avesse dovuto decidere di ritornare a fargli visita, si sarebbe fatto trovare certamente pronto ad affrontarlo.
Spoiler
Ho deciso di scrivere un racconto che narrasse degli eventi precedenti l'arrivo di Raiden al Garden e, in particolare, di approfondire le origini del personaggio, così da ampliarne la conoscenza e capirne meglio la caratterizzazione. Aggiornerò questo post periodicamente per continuare la narrazione
Ultima modifica di Aenima il 16 mag 2014, 22:38, modificato 6 volte in totale.
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Leon Feather »

nope
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Leonheart88 »

La cosa giusta da fare


Il palazzo era ben protetto.
Il Commander Philip Jaeskin stava di nuovo dando una festa delle sue, traducibile quindi in alcool-puttane-droga-puttane minorenni. Leon doveva per forza riconoscere al Commander una encomiabile qualità, le sue decisioni rimanevano immutate nel tempo.
Aveva deciso che gli piacevano le ragazzine. Bene ad ogni festa invitava ragazzine, sempre diverse.
Era perciò facile per il Seed organizzare con precisione un piano per introdursi all’interno della sua abitazione.
No non si sarebbe travestito da ragazzina.
I camerieri provenivano sempre dalla stessa agenzia, un nome anonimo per un servizio che tale doveva rimanere, non erano quasi mai gli stessi ma tutti avevano ordine di tenere la bocca chiusa. Qualunque cosa potessero vedere.
Qualunque.
Si era informato su chi sarebbero stati i camerieri della serata, erano bastate un paio di moine alla segreteria dell'agenzia per riuscire a conquistarla, accedere al suo computer e visionare le informazioni nel tempo della sua doccia era stato un gioco da ragazzi.
Lavoro e piacere a volte potevano unirsi. Essere lo stesso lato della medaglia.
Samuel O'Connor aveva pressappoco la medesima corporatura; alto, robusto, spalle larghe e tozze. Poteva sostituirsi a lui, poteva diventare lui per una sera.
Gli avrebbe fatto guadagnare lo stipendio senza lavorare in pratica.
Lo vide arrivare in lontananza, con la sua moto stava percorrendo le ultime centinaia di metri che lo separavano dalla tenuta del Commander, la strada era dissestata, fango e terra che si mischiavano al poco cemento rimasto. Jaeskin non voleva dare troppo nell'occhio, preferiva tenere il più possibile alla larga i curiosi. Ed i pochi che si avventuravano fin li spesso non facevano ritorno.
Fermarlo non fu difficile, nei giorni precedenti aveva piovuto, parecchio, ritrovarsi un'enorme pozzanghera di fronte a se non era una cosa troppo sorprendente. Che poi non fosse naturale beh era un'altra cosa.
Sentì la moto fermarsi, vide, attraverso i cespugli, Samuel togliersi il casco imprecando contro la sua sfiga ed il fatto di essere in ritardo, avrebbe dovuto costeggiare con la moto la strada, faticando molto di più e con il rischio di sporcarsi.
Ma Leon, magnanimo qual'era, decise di evitargli quell'incombenza. Una magia Morfeo ben piazzata ed il corpo crollò immediatamente nel fango. No forse non lo aveva aiutato a non sporcarsi.
Lo nascose nel bosco. Prese la moto e si avviò verso la tenuta.




La festa era arrivata al suo culmine, l'alcool era ormai dentro a tutti gli stomaci e le tette stavano iniziando a fuoriuscire. Ragazzine che avevano come unica colpa il fatto di essere povere, di avere una famiglia a carico ed avere un corpo piacevole.
Leon non si considerava un salvatore dell'umanità, anche evitando loro l'ennesima umiliazione non avrebbe mai potuto cambiare la loro situazione, presto o tardi si sarebbero ritrovate nuovamente a prostituirsi per un pugno di Guil. A offrire il loro corpo al miglior offerente in cambio magari anche solo di un pasto caldo e di un posto dove dormire.
Il suo bersaglio era un altro. E rimaneva tale, aumentavano solo i motivi per volerlo morto.
Philip Jaeskin si era momentaneamente dileguato, da quando aveva compiuto sessant'anni, cioè tre anni prima, aveva deciso che era meglio non mostrarsi più nudo in pubblico. Più che altro per evitare momenti imbarazzanti in cui qualcosa decide di non alzarsi.
Nella solitudine della sua camera poteva sempre ovviare a tali momenti con l'aiuto di una frusta o di qualunque altra cosa che potesse tenerlo occupato provocando contemporaneamente tanto dolore e sofferenza alla malcapitata di turno.
Il Seed finì di riempire i bicchieri agli invitati alla festa, vedere alcuni suoi diretti superiori con l'attrezzo in tiro e all'aria non era una bella visione. Si sarebbe occupato in quale modo anche di loro. Prima o poi tutti loro l'avrebbero pagata cara.
Con calma, senza dare nell'occhio, salì li scale che lo dividevano dal suo obiettivo, come prevedibile la porta non era chiusa a chiave. Troppa superficialità, troppa supponenza. Un altro Morfeo e la ragazza si addormentò all'istante, Leon avrebbe voluto anche poterle fare dimenticare gli ultimi avvenimenti, ma ci non era possibile. Poteva solo farla pagare ancora più cara al Commander.
Un Novox ed un Blind lo resero inerme, un pugno in faccia fece il resto. Chiuse la porta alle sue spalle, ora arrivava la parte divertente.
Lo svegliò con un getto d'acqua gelata in faccia, si guardò intorno ancora stordito, era legato ad una sedia, le mani congiunte dietro la schiena, un fazzoletto in bocca per impedirgli di parlare. Per una volta era lui la vittima e la cosa non gli piaceva.
Alzò la guardo per vedere chi lo aveva legato, chi era il maledetto bastardo che avrebbe fatto uccidere nella peggiore delle maniere, alzò gli occhi e lo riconobbe. E capì che la sua vita non valeva più un centesimo.
Leon Rayearth. Galoppino di Calien O'Nayel.
Cosa cazz.o poteva volere da lui?
Come a rispondere alla sua silenziosa domanda il Seed gli si avvicinò. Mise su un tavolino davanti a lui un foglio con una penna sopra ed una pistola.
“Ti spiego le regole del gioco: Tu ora firmi il foglio in cui sono descritti tutti i tuoi crimini, poi prendi la pistola e ti spari. Tutto chiaro?”
“Tu sei pazzo”
“Oh... tu non hai idea di cosa ti posso fare, di quante volte posso farti supplicare la morte, di volerla, di bramarla, di desiderarla. Ma vuoi una prova? Eccola.”
Prese un coltello, già arroventato in precedenza, e lo avvicinò alle sue palle. Poteva vedere nei suoi occhi la paura ed il terrore. Con il piatto della lama gliele accarezzò, poteva sentire il suo respiro diventare irregolare e tutti i muscoli del suo corpo gemere di dolore. Spinse verso l'alto, lacrime solcarono il volto del Commander, doveva stare attento a non esagerare. Non voleva che potesse svenire privandolo della lezione.
Girò il coltello, lentamente iniziò ad incidere nella carne, proprio alla base, presto non avrebbe avuto più nulla da alzare.
Gettò infine il coltello al suolo, la pozza di sangue sul pavimento era sempre più grande. Gli diede due schiaffi per attirare la attenzione, troppo preso dal dolore.
“Questo è solo un inizio, tu sai benissimo di cosa i Seed come me sono capaci. Quante volte hai utilizzato il nostro ordine per i tuoi comodi? Quante volte ci hai usato per non sporcarti le mani in prima persona?” Si inginocchiò, immerse la mano nel sangue e la posò sul suo viso “Le nostre mani saranno sporche, ma il sangue è tuo. Ed è giusto che tu paghi”
Leon prese una tenaglia. Jaeskin iniziò a muoversi convulsamente.
Entrò nella sua bocca. Afferrò con decisione la radice del dente e tirò.
Un fiotto di sangue uscì improvvisamente. Il dente picchiò sul pavimento e, rimbalzando finì sotto l'armadio.
Jaeskin piangeva. Gli tolse il fazzoletto dalla bocca.
“Voglio c-c-onfessare..” La sua voce era interrotta da innumerevoli singhiozzi.
Jaeskin firmò il foglio senza ripensamenti, ridotto a pezzi, la psiche completamente devastata. Annientata. Era ormai un burattino che non voleva più soffrire. Non era come Susan. Lei l'aveva rispettata, lui era solo un codardo con una carica che non si meritava.
“E ora la pistola”
Il Commander ebbe un sussulto. Leon gli slegò le mani e gliela mise in mano.
“Dentro c'è un solo colpo, non ti conviene fare scherzi. Se la punti verso di me ti stacco un braccio di netto, e questo sarà niente rispetto a quello che ti farò dopo”
Lo aveva convinto, non si sarebbe ribellato.
Lentamente puntò la pistola contro la propria tempia.
Uno.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Per prendere la decisone definitiva di togliersi la vita, di ammazzarsi, ci vuole sempre tempo. Anche se si tratta dell’unica strada percorribile.
Leon aspettò pazientemente, gustandosi ogni istante della condanna, anche quella era una tortura, non sempre bisogna aggredire il fisico per fare del male a qualcuno.
Il dito si mosse convulsamente sul grilletto.
Bang.
Condanna eseguita.
Leon prese l’accendino dalla tasca e appicco il fuoco a tutto, con tutto l'alcool che c'era dentro la stanza sarebbero bastati pochi minuti per mandare tutto in cenere.
Aspettò qualche secondo, prese le ragazza in braccia e discese velocemente le scale.
“C'E' UN INCENDIO SCAPPATE TUTTI!”
Il panico era stato diffuso, presto di quel posto non ci sarebbero state altro che ceneri. E andava bene così.




Si trovava nel bosco, ad un paio di chilometri dalla casa ormai completamente in fiamme.
Stappò una bottiglia di vino per festeggiare. Il piano era riuscito alla perfezione, lasciò il corpo ancora addormentato della ragazza sul ciglio della strada. Nel cappotto messo addosso a lei, prelevato a caso prima di uscire, aveva messo dei soldi, non tanti ma abbastanza per provare a ricominciare. Magari l'avrebbero aiutata per qualche tempo a non tentare la sorte in case del genere.
Ogni tanto la parte buona di lui veniva fuori, ma dato che aveva appena staccato con un coltello l'uccello ad tizio se lo poteva anche permettere senza vergognarsi.
Depennò il nome di Philip Jaeskin dalla lista.
Meno uno.
Fece ritorno al Garden. La licenza stava per scadere.
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Hjordis
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Hjordis »

Buðlungr
Avvolta in ruvide pelli di lupo, il cui odore selvatico ricordava i profumi di un’infanzia non troppo lontana, affondai nella neve nuova, friabile e densa dopo la tempesta notturna. Era in giorni come quelli che Raghaer svaniva nel folto delle tenebrose foreste del Continente Isolato per lunghe ed estenuanti battute di caccia; ancor più di frequente, abbandonava quel passatempo assoluto per trascorrere insieme a me momenti che di rado potevamo concederci.
Mi ero innamorata di lui con l’ineluttabilità delle maledizioni, quasi fosse già scritto che per noi c’era un Destino di mani intrecciate e sospiri. Crescendo insieme, nelle nostre pelli ci eravamo sfogliati e riconosciuti anno dopo anno.
Aveva un lustro in più di me. Il nostro primo contatto non fu tenue e languido, quanto polveroso e crudele, perché portavamo nel sangue un futuro di guerra ma lo ignoravamo entrambi – non lo sapeva lui, che sarebbe morto nel segno di una pazzia affamata e mai appagata. Non lo sapevo io, che sarei stata la lama sotto cui si sarebbe spento.
Del poco tempo che avemmo, ricordavo tutto: il colore del cielo e il biondo dei suoi capelli; la consistenza pastosa dell'aria e la sua bocca, che rideva di rado e baciava per possedere. Ero sua. Era mio. Così, se non altro, credevo.
Deglutii il sapore amaro della sconfitta, lasciando vagare lo sguardo all'orizzonte: il ghiaccio scivolava sino al mare fendendo la roccia e a monte, tracciando fratture orizzontali e ribollenti, barbigli del calore sotterraneo di una terra antica quanto gli Dei lambivano di lingue roventi, rossastre, le punte di un cristallo così puro da ricordare diamante.
Erano due nature configgenti che si adattavano bene agli Ajsynn - popolo di ghiaccio e passioni eterne - l’ossimoro in cui il potere del mio sposo si era forgiato, inorgogliendomi di una forza che ci aveva unito e infine visto nemici.
Si era estinta nel sangue e con essa la paura nella quale ci aveva costretto troppo a lungo. Era morta. Era morto.
Perché?
Sfuggì dalle labbra prima che riuscissi a fermarlo. Un sospiro doloroso che divenne vapore e si dissolse.
Portai gli occhi alle mani guantate. Avevo lottato e basta, piena di una disperazione colpevole: era il mio futuro ma avevo dovuto distruggerlo perché non divorasse il cielo e i polsi tremavano ancora, quando mi ero abbandonata alle cure di un principe troppo arrogante e testardo, che mai mi aveva riservato più di un'occhiata distratta, nel tentativo di lavare ferite, polvere, ricordi, forse persino rimorso, sebbene non lo provassi davvero. Non fino in fondo, almeno.
Raghaer mi aveva sottratto il terrore dalla mente e dal cuore per vestire un'altra pelle; non era più il mio re, soltanto uno dei tanti nemici d'abbattere per difendere quanto restava di noi, della nostra gente. Per proteggere quella terra.

Strinsi la presa attorno agli steli. Pallidi, eppure resistenti e bellissimi, i bucaneve occhieggiavano tra le mie dita.
Erano un omaggio ipocrita? Le lacrime di un cuore che non era rimasto fedele, nella perdita? Respirai in profondità e mossi ancora un passo; il tumulo dominava il fiordo con la fierezza che chiedeva il nome. Le onde spumose, agitate del mare non l’avrebbero mai raggiunto e distrutto, né le lave impietose di quel territorio bellissimo e selvaggio.
Forse era stato il fuoco, forse il pianto: di fronte alla pira di Raghaer, le mie guance avevano bruciato e gli occhi si erano riempiti di aghi. Per ogni scintilla che aveva toccato il cielo, nel mio sguardo senza sguardo era fiorito un dettaglio - l’odore pungente di sole e neve del primo abbraccio si legava a quello dolce e stordente della sua bocca.
Un battito di ciglia ed era svanita l'illusione di essere ancora una ragazzina. All’improvviso mi era sembrato di aver vissuto un giorno e non era stato sufficiente; avrei raggiunto a breve la terza decade, eppure mi sentivo già vecchia.
Il lezzo penetrante della carne bruciata mi rimase incollato addosso per giorni, come una maledizione, un'infezione che non ammetteva conoscenza se non attraverso l’esperienza: la perdita. Cosa significa che un amore muore?
Che il futuro sbiadisce. I sogni perdono colore e il corpo vacilla, perché la voglia di un uomo ha levigato gli spigoli per renderti incompleta nell’assenza; urlavo, le prime notti, stringendomi con braccia che non ricordavano le sue.
Il capo reclinato contro la clavicola, cercavo l’impronta di un odore che avrei perduto. Avrei ripreso a respirare, ne ero consapevole, ma tutto quello che chiamavo vita saliva allora nella notte in un filo di fumo - ed io ero polvere.

In silenzio portai le mani al petto. Faceva ancora male. M'inginocchiai davanti alla tomba, sfiorando il velo lieve con cui il ghiaccio aveva coperto la nuda pietra, e deposi con cura i bucaneve sul terreno gelato, congiungendo le dita.
«Sei in collera con me, Raghaer?» sussurrai, abbassando lo sguardo come se l’azzurro dei suoi occhi potesse ancora scrutare il mio volto fino a leggere angoscia e rimpianto. «Perché sono sua? Perché ti porto solo ora il mio saluto?»
Articolai quelle ultime sillabe con crescente fatica, guardandomi furtiva alle spalle quasi qualcuno potesse profittare della confessione resa a un morto che mai sarebbe svanito dal mio cuore; nel silenzio dell’ora meridiana e già volta verso le tenebre, persino il mio respiro echeggiava assordante e prevaricatorio. Mi risollevai lentamente in piedi.
«Perdonami. Ma non ti ho tradito, non come potresti credere. A volte, piuttosto, è vero quanto mi confidasti: levi lo sguardo al cielo e il sole ti sorprende a mezzanotte in un'aurora insolita. Inatteso. Come la vita... e tutto il resto.»
Nel dirlo, passai la mano sul ventre. Sarebbe nato in un giorno di perdita, l'erede di un regno fantasma, quasi a sostituire quel futuro spezzato troppo presto, ma saperlo mi aveva convinto fosse metafora di speranza, una ferita che sarebbe infine guarita senza cicatrici - perché l'amore non tollera ricordo: è nel tempo. Presente e mai passato.
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Nightmare/dark sephirot »

Frederich[1]


Eravamo in viaggio da diverse ore su di un piccolo velivolo dell'Ordine, molto simile ai jumper comunemente utilizzati dai vari garden ma con piccole differenze ed una comodità forse eccessiva per un semplice mezzo di trasporto; vi era persino un piccolo bagno chimico per nulla sporco o maleodorante.
Curioso come io riesca a ricordare simili particolari, soprattutto considerando il fatto che in quel periodo iniziavo a soffrire di perdite di memoria più acute.
Mi accompagnavano due delegati dell'Ordine, il professor Jasper e chiaramente il pilota; ed erano stati proprio quei due a presentarsi di punto in bianco alla nostra sede per prelevarci. Il professore era oramai abituato, spesso gli veniva chiesto di fare rapporto di persona o anche di occuparsi di faccende tecniche o di consulenze occasionali. Insomma, si può dire che gli venisse riconosciuto il suo talento prima dei suoi difetti.
Che anche io venissi convocato era completamente inaspettato; e non ricevemmo ragguagli a riguardo, per tutto il tragitto.
Ordini.
Ordini dall'alto. Non discutibili, massima riservatezza.
Ero quasi onorato...

Sarcasmo a parte, l'idea di poter visitare quella struttura mi affascinava a tal punto da distogliere i miei pensieri da qualsiasi altra cosa, e d'un tratto tutte le mie preoccupazioni passate, gli impegni presenti, i progetti futuri erano svaniti; rimaneva solo quell'atavica curiosità, quella voglia di scoprire il mondo circostante.
In fondo erano anni che non mi muovevo dalla struttura, conoscevo il mondo solo tramite libri, cartine e storie, ma nulla di più. Fino ad allora non vi avevo mai dato peso...Fino ad allora.
Passai tutto il tempo del viaggio, e trattasi di diverse ore, a fantasticare su cosa e chi mi sarei trovato di fronte a breve, vanificando ogni tentativo di conversazione da parte di Jasper. Per la verità una vaga idea di come dovesse essere il Garden Supremo l'avevo già, del resto tra un allenamento e l'altro ci erano state date un buon numero di informazioni su Ordine, garden, Seed e così via; nonostante ciò ero perfettamente cosciente che tra il vedere ictu oculi qualcosa e sentirne solamente parlare vi era un abisso di differenza. E le mie aspettative non vennero deluse!

Lentamente il jumper d'elite rallentava appropinquandosi ad una struttura mastodontica che levitava nel cielo di quella che suppongo fosse Centra; diversi reattori permettevano a quell'enorme bunker di vincere la forza gravitazionale e spostarsi con velocità variabile, tutto il perimetro della struttura era corazzato e difeso da armamenti di varia natura ed un campo antimagia. Ma la realtà era che quei mezzi costituivano più che altro un avvertimento che non un deterrente: fare irruzione nel Garden Supremo con intenti non pacifici o anche semplicemente senza dei permessi validati dai ranghi alti dell'ordine equivaleva a morte certa.
Me ne accorsi appena entrammo nella struttura.
Non vi furono molti controlli, eccetto una rapida verifica delle identità e dei documenti vari; non ci assegnarono neanche una scorta, semplicemente i Seed di guardia ed i nostri precedenti accompagnatori si limitarono ad indicarci la strada da seguire e la nostra destinazione.
All'inizio pensai che questo comportamento fosse motivato dal fatto che Jasper era ben conosciuto da quelle parti, ma passeggiando per i giardini dell'Ordine rimasi due volte stupefatto, sia per la maestosità e bellezza del posto che per la gente che incontravamo: molte facce le avevo viste in foto, di altri avevo sentito parlare ed altri ancora, beh, riuscivo a percepirne bene sia i sentimenti predominanti che la forza; anche per un neofita sarebbe stato lampante che quelli erano tutti dei veterani, persone che andavano ben oltre l'ordinaria amministrazione, ognuno di essi capace di tener fronte a intere squadre di soldati di ogni genere.
Mentre noi apprendevamo le basi del combattimento di spada, loro creavano nuove discipline.
Noi eravamo quelli che cercavano di raggiungere il rango più alto nelle discipline marziali, loro quelli che giudicavano le nostre prestazioni.
Noi cercavamo di manipolare la magia, per loro era solo un artifizio con cui manipolavano la realtà.

Molti non erano propriamente classificabili come umani, per certi versi nemmeno io potevo dirmi interamente tale, e a ben pensarci se non lì non avrebbero avuto altri posti dove vivere; sotto questo punto di vista l'Ordine si faceva carico anche di supportare le minoranze, non senza un minimo di tornaconto ovviamente. Ma era comunque una buona cosa.
Per un istante mi balenò l'idea che tra di essi potesse esserci anche Null, ma era impossibile: l'avrei percepita subito.O meglio, lei avrebbe percepito me; e non so quanto la cosa avrebbe potuto essere salutare.

Arrivammo ad una struttura di modeste dimensioni, completamente in marmo lavorato ed immersa in un piccolo spiazzo verde adornato da siepi,cipressi e due fontane; chiaramente non si trattava nè di un laboratorio nè di un centro di addestramento.
Venimmo accolti da due Seed che ci condussero all'interno fino alle porte di un grande salone adibito a metting e conferenze. Lì trovammo un generale ed... Una ragazzina.
Ancora oggi ricordo il mio stupore, che non riuscii mio malgrado a mascherare, quando me la trovai di fronte; ed il fatto che una dodicenne fosse in quel luogo, in mezzo a generali e soldati di alto rango, non era nemmeno ciò che mi turbava maggiormente!
Jasper, vedendo l'espressione dipinta sul mio volto, rise appena e col sorriso ancora sulle labbra mi sussurrò poche semplici parole: "Tranquillizzati, anche lei è un generale. Ah, e se ti stai chiedendo come mai non percepisci nulla da lei, sappi che trattasi di un altro soggetto test; il tuo opposto, diciamo."
Mi sembrava impossibile che un bambino potesse aver raggiunto un tale grado in un'organizzazione militare, esperimento o meno! A quell'età poi!
Tuttavia le soprese non erano finite, quando i due ci fecero cenno di entrare trovai ad aspettarci nella stanza una persona che non vedevo da tanti anni e mai mi sarei aspettato di rivedere in quell'occasione.
"Tu?"
Frederich, 24 anni, Seed Commander nel Garden Supremo .
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Re: FanFic Garden

Messaggio da Nightmare/dark sephirot »

Frederich[2]


Sorrise lievemente, la mia espressione stupefatta lo divertiva e forse in quel momento entrambi fummo catapultati indietro di qualche anno, quando eravamo soliti scherzare tra di noi nei momenti di pausa.
"Siegmeyer, Dottore... Prego, sedetevi."
Ci indicò due sedie vicine a un tavolo su cui era posta una grossa valigia in acciaio chiusa da un lucchetto a combinazione; senza indugio mi accomodai, trattenendo a freno la miriade di domande che volevo porgli.
Il generale e la bambina rimasero in piedi vicino alla porta ad osservarci in religioso silenzio.
Frederich prese il suo tempo prima di iniziare a parlare, sbuffando un po' e tamburellando sul tavolo con le dita; era una cosa che faceva spesso quando non sapeva come iniziare un discorso, o più precisamente quando aveva perfettamente idea di cosa dire ma non come.
Tuttavia alla fine trovava sempre i termini più pertinenti.
Secondo Jasper era stata la sua spiccata abilità nel comprendere i sentimenti altrui a determinare queste peculiarità del modus agendi, più come forma di protezione che non come atto volontario: una sorta di personalissimo sistema di autodifesa.

Incrociò le braccia e fece un ultimo sbuffo prima di parlare:
"Mi spiace per questa accoglienza un po' spartana, purtroppo non posso nemmeno offrirvi un thè o un prosecco; il tempo è sempre tiranno, senza contare che sono in servizio.
Quindi, sarò breve: devo mettervi al corrente delle attuali direttive e degli ordini, riguardanti entrambi."
"Queste sono cose che generalmente mi giungono per via telematica"-Jasper lo interruppe subito-"Questa convocazione è quantomeno inusuale, per utilizzare un eufemismo. Allora, cosa c'è di nuovo?"
Nonostante la differenza di grado, si permetteva tutta quella confidenza. Evidentemente non era la prima volta che avevano a che fare l'uno con l'altro, escludendo il periodo passato nella struttura.
"L'impianto verrà demolito. Fra pochi minuti, se i tempi vengono rispettati."
"Nessuno mi aveva avvisato"
"La sto avvisando ora"
Frederich sapeva benissimo che Jasper alludeva ad altro e lo stesso sospetto stava tormentando anche la mia mente, ma un gesto della sua mano ci bloccò prima ancora che potessimo parlare.
"Come voi due, altri soggetti sono stati convocati in altri garden o trasferiti in altre strutture; purtroppo ciò non è stato possibile per tutti, sia per problemi logistici che per manifesta inappetenza. Va da se che il progetto va mantenuto segreto."
*inappetenza*? *soggetti*?
Questo non era il suo modo di parlare, non era mai stato così.
Eppure non percepivo cambiamenti, era sempre lui, lo stesso degli anni passati; solo che sentirgli dire quelle cose era molto strano, e faceva male.
Incrociai il suo sguardo per un attimo e vidi riflessa nei suoi occhi la mia tristezza. Ancora una volta mi tratteni dal dire alcunchè, sperando in una sua spiegazione preventiva, ma ottenni solo il silenzio.
Mi voltai verso Jasper.
Anche lui era silenzioso, ma non dovetti ricorrere alla mia abilità per decifrare quell'espressione che mi era nota già da tempo: era infastidito; e conoscendolo potevo intuirne le motivazioni.

"Il lavoro non è andato perduto, tutte le ricerche sono nei nostri database e le verranno inviate all'indirizzo del suo nuovo laboratorio; le verrà inviata anche una lista di alcuni degli scienziati che hanno partecipato al progetto e che eventualmente potrà contattare per necessità varie."
Frederich aveva ripreso a parlare e a quanto pare aveva toccato i pochi tasti che interessavano al dottore.
"Per quanto riguarda te, Siegmeyer, sarai sotto la sua tutela ancora per un po' di tempo. Al momento opportuno verrai trasferito in un garden.
Non c'è altro."
E quelle erano le sue parole di congedo.
Jasper era già in piedi, ma io non riuscivo ad alzarmi da quella sedia.
Non esisteva una cosa del genere, per chi mi aveva preso? Dopo tutti quegli anni non poteva liquidarmi così.
E come se i miei pensieri fossero stati espressi a voce, Frederich fece cenno a Jasper e ai due generali (l'adulto e la bambina) di lascirci da soli per qualche minuto.

"Che cos'è tutta questa merda?"
"Stai calmo."
Lo fissai negli occhi e non riuscii a trattenere una risata amara.
"Stai calmo?"
Proprio lui mi stava dicendo una cosa del genere? Proprio lui, che più di tutti sapeva sempre cosa dire ora usava il clichè più vecchio e stupido del mondo?
"Da quando sei diventato così? Ora cosa mi dirai, che non è come sembra?"
"E' esattamente come sembra, ma molte cose non puoi nè saperle nè capirle; è tutta la vita che è così per te. Ma cercherò di spiegarmi lo stesso." Poggiò la sua mano sulla mia spalla. "Presto o tardi ognuno è costretto a fare cose che non vorrebbe, ad optare per decisioni difficili e spesso drastiche o impopolari; e il numero di tali decisioni aumenta man mano che si scala la vetta del potere. Nel nostro ambiente, poi, è quasi all'ordine del giorno.
Tu però sei fortunato.
Tu non ricordi quasi mai quello che fai! Qualsiasi crimine, peccato, o semplicemente un ordine spiacevole... Se ne va via con la parte di anima che ha commesso quel tale atto."
Si prese qualche secondo prima di continuare.
"Ma questo va anche a tuo svantaggio, non puoi collezionare determinate esperienze e per quanto tu possa leggere i sentimenti altrui non necessariamente potrai comprenderli; lo stesso vale per le azioni o le scelte di ogni persona.
Dal canto mio, posso solo dirti che un generale quando si prepara a una battaglia ha l'ingrato compito di decidere quanti sottoposti andranno a morire. Non a combattere. A morire. Ed è giusto che chi sta più in alto nella scala sociale abbia gli oneri più gravosi."
Non dissi nulla, non riuscii nemmeno a guardarlo negli occhi.
Non mi piaceva, detestavo ciò che mi aveva detto ma era vero. Lui ci credeva e mio malgrado anche io.

Fece il giro del tavolo ed aprì la valigia: conteneva dei documenti vari, sfere di vario colore e tre armi.
"Queste te le affida il garden supremo. Da oggi saranno le tue armi che userai in allenamento, durante i test e prossimamente nel garden di appartenenza. Ci sono i documenti relativi ai precedenti proprietari, inoltre queste sono alcune materie che dovresti essere in grado di maneggiare.
Ricorda che tutto questo è proprietà del garden supremo."
Annuii.
Richiuse la valigia e mi diede un biglietto con la combinazione.
Ci salutammo, in maniera formale, ma prima di andarmene mi rivolse delle ultime parole.
"Sieg, che questa sia la prima e l'ultima volta che ti poni dei dubbi sugli ordini dei superiori; per quanto possano sembrare atroci o insensati, sappi che dietro c'è sempre qualcuno che ha valutato tutte le possibilità e le conseguenze sul mondo circostante. Che è molto più vasto e complicato di quello che tu hai davanti."
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Re: FanFic Garden

Messaggio da xthegame89x »

I know it's hurting you, but it's killing me


1/4


Quanto doveva stare via? Ancora non lo sapeva. Tutto ciò che sapeva era il nome di quello scienziato che avrebbe dovuto cercare, Robert Overlord. Sperava di poter risolvere quel suo "problema" e tornare ad essere uno dei guerrieri più affidabili all'interno del Garden. Purtroppo, l'avere quel demone dentro di sé non gli permetteva di esserlo. Molti dei suoi compagni avrebbero rischiato la vita se lui avesse perso il controllo. Come dimenticarsi di ciò che successe a Reimse Mor, di quanto rischiarono tre persone a lui care per poterlo salvare? Aura, Egil e Raiden lo avevano rincorso per tutto Reimse Mor, disperatamente, rischiando la loro vita. E se lui, con i poteri di Dark Bahamut, li avesse attaccati? Per quanto potessero essere dei guerrieri formidabili, non sarebbero sopravvissuti.

A quanto gli aveva detto il dottor Priest prima di congedarlo, Overlord era un tipo abbastanza solitario, che abitava nelle lande desertiche di Kayubarn, abitate per lo più dai Kiactus e dagli Abyss Worm. Mancava ancora qualche minuto prima che raggiungesse il paesaggio torrido e afoso del deserto, dopo aver messo il pilota automatico della navetta decise di riposare gli occhi qualche minuto.
**********
- E' passato tanto tempo... lo sai che quello che mi chiedi, è qualcosa di impossibile?

Il vecchio si rigirò i pollici per un attimo, prima di rispondere alla domanda. Il giovane, impaziente, lo guardava con aria di attesa e curiosità. Voleva sapere a tutti i costi ciò che era successo in quel luogo.

- Poi, anche se dovessi spiegartelo, che intenzioni hai ragazzo?
- Non ho intenzione di fare niente... voglio solo sapere come sono andate le cose! - disse Sam

Il vecchio lo guardò dalla testa ai piedi, cercando di capire di più sulle reali intenzioni del ragazzo. Quali che fossero, non le avrebbe mai sapute.

- E va bene... spero che ciò che ti dirò non ti cacci nei guai... il mio nome è Tray Evergreen. Ho lavorato come scienziato presso il Laboratorio di ricerche sottomarine per molti anni e, fortunatamente, prima del disastro che poi ha costretto tutti ad abbandonare quel progetto, presi le ferie per tornare dalla mia famiglia. Non so cosa il giorno mi abbia fatto fare quella scelta... ma ogni giorno ringrazio dio di averla fatta.
- Cosa avete scoperto in quel luogo durante la sua presenza? - disse Sam cercando di avere più informazioni possibili
- A parte la presenza di moltissimi mostri pericolosi? Non so cosa avremmo fatto senza il reparto di sicurezza. Ma penso che studiare quella fonte di energia misteriosa sia stato solamente un enorme sbaglio...
- Una fonte di energia?
- E' proprio per questo che è nato il centro di ricerca! Degli scienziati avevano scoperto la presenza di una fonte energetica nel pianeta e si erano riuniti nel punto in cui, si presumeva, ci fosse la fonte. - il vecchio sospirò prima di proseguire - Molti utilizzavano i G.F. e penso che facciano finta di non ricordare ciò che successe in quel luogo... per quanto mi riguarda, non ho mai utilizzato i Guardian Force e sono felice di averlo fatto.

Perchè utilizzare i Guardian Force per lui era sbagliato? Sam non capiva. Ma più ripensava alle parole del vecchio mentre la navetta lasciava l'isola Arkland alla volta del centro di ricerche, più non capiva a cosa erano andati incontro i suoi due fratelli.
**********
Se non ci fossi io a quest'ora saresti morto di caldo.

"Grazie Ifrid. Ti voglio bene anche io." pensò Matt. Come non dargli ragione? In quel posto dovevano esserci almeno 45 gradi all'ombra, figuriamoci alla luce diretta del sole. Decise di passare rasente alle montagne, dato che dubitava fortemente che Overlord si trovasse proprio al centro del deserto. Aveva dato un'occhiata tramite la sua navetta, sorvolando il deserto velocemente, ma non aveva visto accampamenti o un punto in cui potesse trovarsi lo scienziato. Sempre che si trattasse di uno scienziato, chi poteva vivere in quelle condizioni?

Stava vagando da più di un'ora, aveva le scarpe piene di sabbia, i vestiti pieni di sabbia e aveva anche qualche dubbio sul fatto che pure il suo cervello si stesse riempendo di sabbia.

- Ma dove sei... dove diavolo sei... - disse Matt parlando tra sé e sé

Non ebbe il tempo di finire la frase che qualcuno, colpendolo alla testa, gli fece perdere i sensi. La prima cosa che avverti fu l'odore di umido, di muschio, che invase le sue narici quasi soffocandolo. Aprì gli occhi: per un attimo, ebbe la vista sfocata e cercò di mettere a fuoco ciò che lo circondava. La luce fioca di una torcia illuminava debolmente la grotta in cui si trovava. Era seduto in una sedia e aveva le braccia e le gambe legate. Era stato fatto prigioniero. Davanti a lui vi era un uomo alto circa un metro e ottanta, capelli neri poco più lunghi dei suoi e una corporatura vagamente robusta. Indossava dei pantaloni militari, di un colore simile alla stessa sabbia del deserto, una canottiera bianca e una giacca dello stesso colore dei pantaloni legata alla vita.

- Tu devi essere Overlord... Robert Overlord... - disse Matt con voce roca, aveva ancora un forte mal di testa causato dal colpo

L'uomo si fermò improvvisamente. Non capiva cosa stesse facendo, ma come si voltò rimase inorridito.

- Overlord? Già... forse un tempo lo ero... ora non più.

Il volto era per metà ricoperto di squame, le stesse squame che invadevano lui quando si trasformava in Dark Bahamut: scure, spesse e inquietanti. Un occhio era azzurro, l'altro era del tutto nero, compresa la cornea.

- Il mio aspetto ti infastidisce? Eppure non sono così male... sai dicono che alle ragazze piacciono le ferite.
- Forse le ferite, ma non le squame di Dark Bahamut! - disse Matt perplesso
- Dark Bahamut? E chi sarebbe? - disse Overlord perplesso
- Quello che ti ha combinato così! E che se non faccio qualcosa, combinerà anche me così!

Overlord si accarezzò la parte piena di squame del suo viso.

- Dark Bahamut... mi dispiace contraddirti ma il suo nome non è quello...
- E qual è il suo nome? Perchè tu sai di chi sto parlando!
**********

Sono tornato ragazzi, con un nuovo canale e con nuove serie. Restate tunizzati per scoprirne di belle! Buona visione! :P
Spoiler
PROGRAMMAZIONE
LUNEDI
- Fantasy World, Final Fantasy IX -
MARTEDI
- Let's Technic, Minecraft Monster Pack 1.6.4 -
MERCOLEDI
- Fantasy World, Final Fantasy IX -
GIOVEDI
- Desertcraft, Minecraft Regrowth Pack 1.7.10 -
VENERDI
- Il ruggito del T-Rex, Dino Crisis -
SABATO
- Video Random -
Se dovete utilizzare il mio pg nel Garden, controllatevi la scheda prima, barboni! xD
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Spoiler
LE PERLE DI SAGGEZZA DEL GRUPPO DEL GC SU FB
Egil ha scritto: Non possiamo fare un referendum per dichiarare Matt Winchester illegale e immorale?

Leon ha scritto: Matt Winchester ogni volta che fai un commento inutile, un gattino nel mondo muore
Paine ha scritto: o.ò sisi confermo la mia teoria... Matt è posseduto dal demonio.
Leon ha scritto: E' più probabile che sia il demonio a essere posseduto da Matt Winchester.

Leon ha scritto: Non è la situazione ad essere disperata, è Matt che si è messo in testa di far crashare i server di Facebook.

Leon ha scritto: Matt Winchester la tua firma occupa una schermata intera e ho un fo***to monitor 1920*1080.
Matt Winchester ha scritto: Quindi anche Ruben è a Reloras??? Posso usare il suo pg????
Vero posso posso posso???
Daiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!
Drittz Do Urden ha scritto: No.
Matt Winchester ha scritto: Sob sigh... (A Drizzt Do Urden piace quest'elemento)
Paine ha scritto: Penso che comunque debba smettere di mortificare il povero matt.... è un cazzone, lo sappiamo tutti e mo lo sai anche tu, non ci fosse lui qua staremmo tutti a grattarci le palle, quindi passa un commento anche fosse acido. Paine docet
Leon ha scritto: Matt Winchester minaccia pure i cani randagi che incrocia per strada ormai (ovviamente trasformandosi in bahamut)
xthegame89x
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Re: FanFic Garden

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2/4


Bevve un po' di caffè dalla sua tazzina, mentre il vecchio davanti a lui sospirò. Riportare la sua mente a quei ricordi non era stato per niente facile, anzi. Erano ricordi che stava cercando di eliminare, di tenere rinchiusi in un antro abissale della sua mente. Ma capitavano le notti in cui sognava ciò che aveva scampato. Come uno dei pochi membri dello staff di ricerca ad essere ancora in vita, esaminò le riprese delle telecamere di sorveglianza durante il disastro. Sapevano di Ultima Weapon, sapevano dei mostri... sapevano anche come tenerli a bada, non era quello di certo il problema.

- Cosa successe nel centro di ricerche? - disse Sam ancora più curioso
- Sai che sei curioso ragazzo? - disse Tray con un mezzo sorriso e la voce stanca - Va bene... ti accontenterò... quando visionai le registrazioni, i miei colleghi erano alle prese con la fonte misteriosa. Probabilmente avevano trovato il modo per raggiungerla, ma non per controllarla. In effetti, non sapevano neanche cosa fosse... come pretendi di controllare qualcosa di così potente e per di più che non conosci?

Sam era sempre più perplesso. Se si fosse trattato di un mostro, per quanto potesse essere forte, avrebbe potuto lasciare l'isola e raggiungere la terra ferma, dopo una bella nuotata. Avrebbe fatto una strage e nel mondo si sarebbe saputo qualcosa. Quindi probabilmente non si trattava di un mostro. Allora cosa? Il vecchio sospirò prima di continuare.

- Mentre alcuni dei miei colleghi consultavano dei monitor, gli allarmi collegati agli scavi della sezione nord cominciarono a suonare... successe tutto all'improvviso che non si capisce neanche tanto bene cosa sia successo. Vi fu un'esplosione, i portoni che bloccavano l'accesso alla sezione nord, che in quel momento si stavano chiudendo e sigillando, furono scaraventati come se fossero due pezzi di carta dall'altra parte del laboratorio. - prese una piccola pausa, sorseggiando il suo caffè - Alcuni provarono a scappare... altri venivano lanciati come se fossero stati dei pupazzi contro le pareti...

Una forza misteriosa. A quanto si ricordava lui, durante il suo addestramento al Garden di Balamb, non aveva mai letto di forze misteriose in grado di scardinare porte autosigillanti dal peso di una tonnellata o di lanciare le persone. Esistevano i mostri, le magie e le streghe. Ma già in quel periodo, si poteva parlare solamente di due streghe, dato che Artemisia era ancora sconosciuta: una era Edea e l'altra era Adele. Raggiunse l'ingresso del centro di ricerche: regnava un silenzio quasi opprimente, cupo e terrificante. Era così silenzioso da far rumore. "Non è questo il momento di fermarsi..." pensò Sam, facendosi coraggio e sguainando l'Hyperion fece il suo ingresso nella struttura.
**********
Overlord sorrise. Rise sotto i baffi. Rise a crepapelle.

- Il nome?? Mio caro ragazzo. Se ho ben capito bene, hai ereditato una maledizione! Che ti porterà a morire in modo atroce! Fai una cosa, rendi il mondo migliore. Ucciditi.
- Non sfidarmi... potrei sprecare anni della mia vita preziosa, trasformandomi in Dark Bahamut per ucciderti, accelerando il processo però... - aggiunse Matt abbassando lo sguardo

Lo guardò per un attimo, alzò le spalle e si avvicinò a lui.

- Come ti chiami, ragazzo? - disse Overlord
- Cosa ti interessa?
- Senti... avremo tanto tempo insieme... ho distrutto la tua navetta... non potrai lasciare il deserto neanche se volassi...
- Il problema è che io volo per davvero. - disse Matt con un ghigno sul viso
- Ah si? E perchè non lo hai già fatto? Perchè non ti sei già liberato, ucciso me e andato via?

Silenzio.

- Te lo dico io il perchè. Hai bisogno di conoscere ciò che ospiti e devi ringraziare il cielo che ancora sta dormendo.
- Certo... perchè è rinchiuso dentro la mia testa.
- E' già un passo avanti... io, putroppo, ho lasciato che aprisse due dei quattro portoni prima di liberarmene...
- Portoni? - Matt era incredulo
- Esattamente... i quattro portoni della via della morte! - rise fragorosamente

"Ok. E' pazzo." pensò Matt guardandolo perplesso.

- A parte le battute. E' un modo per rappresentare le volte che potrai trasformarti in Dark Bahamut prima di morire... prima si prende ciò che ti copre esteriormente, anche se ancora non si vede ma pian piano si vedrà anche quello. La seconda si prenderà quasi tutti i tuoi organi interni... gli ultimi penso che siano il cervello e il cuore... preferiresti essere morto piuttosto che raggiungere la quarta porta... vuol dire che sei davvero disperato... - disse Overlord abbassando lo sguardo

Qualcosa del tono di voce che si ruppe per un istante dell'uomo che aveva davanti, fece capire a Matt che Overlord ebbe un serio motivo di utilizzare i suoi poteri. Ma che non servì a niente.

- Cosa ti ha fatto utilizzare i tuoi poteri? Cosa ti ha reso in quelle condizioni? - doveva saperne assolutamente di più
- Giurami che non farai stupidaggini e ti libererò. - disse Overlord - In fondo, va contro la tua stessa vita uccidermi. - rise a crepapelle un'altra volta

"Ok. E' pazzo sul serio."

- Va bene...

Overlord guardò solamente le catene, si sciolsero come se fossero state fatte di burro.

- Ma come...
- Pensi che abbia ancora i poteri di quell'essere? No... non ho più i poteri di quell'essere. Sono solo i... miei vecchi poteri. Allora, come ti devo chiamare, ragazzo? - aggiunse con un sorriso

Sono tornato ragazzi, con un nuovo canale e con nuove serie. Restate tunizzati per scoprirne di belle! Buona visione! :P
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PROGRAMMAZIONE
LUNEDI
- Fantasy World, Final Fantasy IX -
MARTEDI
- Let's Technic, Minecraft Monster Pack 1.6.4 -
MERCOLEDI
- Fantasy World, Final Fantasy IX -
GIOVEDI
- Desertcraft, Minecraft Regrowth Pack 1.7.10 -
VENERDI
- Il ruggito del T-Rex, Dino Crisis -
SABATO
- Video Random -
Se dovete utilizzare il mio pg nel Garden, controllatevi la scheda prima, barboni! xD
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LE PERLE DI SAGGEZZA DEL GRUPPO DEL GC SU FB
Egil ha scritto: Non possiamo fare un referendum per dichiarare Matt Winchester illegale e immorale?

Leon ha scritto: Matt Winchester ogni volta che fai un commento inutile, un gattino nel mondo muore
Paine ha scritto: o.ò sisi confermo la mia teoria... Matt è posseduto dal demonio.
Leon ha scritto: E' più probabile che sia il demonio a essere posseduto da Matt Winchester.

Leon ha scritto: Non è la situazione ad essere disperata, è Matt che si è messo in testa di far crashare i server di Facebook.

Leon ha scritto: Matt Winchester la tua firma occupa una schermata intera e ho un fo***to monitor 1920*1080.
Matt Winchester ha scritto: Quindi anche Ruben è a Reloras??? Posso usare il suo pg????
Vero posso posso posso???
Daiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!
Drittz Do Urden ha scritto: No.
Matt Winchester ha scritto: Sob sigh... (A Drizzt Do Urden piace quest'elemento)
Paine ha scritto: Penso che comunque debba smettere di mortificare il povero matt.... è un cazzone, lo sappiamo tutti e mo lo sai anche tu, non ci fosse lui qua staremmo tutti a grattarci le palle, quindi passa un commento anche fosse acido. Paine docet
Leon ha scritto: Matt Winchester minaccia pure i cani randagi che incrocia per strada ormai (ovviamente trasformandosi in bahamut)
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