I tre Buddha
  ● Autore: Squall86

Prefazione - Ogni cammino ha un inizio.


Il capo del villaggio mi disse un giorno che il destino del mondo gravava sulle mie giovani spalle. Mi consegnò un fagotto, dicendomi di aprirlo solo quando mi fosse davvero servito qualcosa. Mi vestì di cenci e mi congedò. Il mio viaggio ebbe inizio. Il mio maestro mi aveva istruito sulla via da seguire. – Devi chiedere consiglio ai tre Buddha - mi disse. – Ricordati: è la saggezza che spiana la strada all’uomo, è l’intelligenza che lo guida lungo la strada, è l’astuzia che gli permette di percorrere la strada ed è nuovamente la saggezza che gli indica la fine della strada. –



Parte I - Il signore della foresta vergine.


Il cammino mi condusse in una foresta vergine. Mosso un passo al suo interno, gli alberi si riunirono a formare una barriera impenetrabile che mi impediva di proseguire. Poi iniziarono a parlarmi all’unisono. – Zentah, dicci perché noi tronchi siamo così spessi e alti e resistenti e nonostante tutto le fragili foglie continuano ad essere sempre più alte di noi e regnano su di noi? -

Il verde trionfava, regnando dall’alto sulle misere cortecce scarne degli alberi, i quali lottavano per mantenere la loro dignità, crescendo sempre più alti ed imponenti.

Pensai a quanto gli alberi e la loro chioma somiglino all’uomo, talvolta. Pensai a quando mio fratello maggiore, per giocare, mi insultava chiamandomi con un termine che nella nostra lingua significava “piccolo uomo". – Zentah piccolo uomo – mi chiamava, perché era più alto di me e molto anche. Ed io di tutta risposta mi arrabbiavo e mi facevo grande, spingendo il petto in fuori e alzandomi sulle punte e più io reagivo più lui rideva e mi scherniva. Infine mi resi conto, che più io reagivo più gli davo il divertimento che lui cercava e così cessai. Pensai a quanto mio fratello adesso fosse più basso di me, e così risposi. – Grandi tronchi, la risposta è semplice. Così come è sempre stato che un fratello maggiore sia più alto di quello minore nell’età dell’infanzia, allo stesso modo è sempre stato che le foglie siano più alte dei tronchi in primavera. Cari tronchi, la soluzione è nella pazienza. Attendete, poiché così come anche il fratello minore diverrà alto in età adulta, allo stesso modo voi tronchi guarderete le foglie dall’alto verso il basso quando giungerà l’inverno. Ed il sole sarà vostro. – Esitarono ed infine mi lasciarono attraversare il loro magnifico intreccio. Quando giunsi al centro della foresta, trovai un fiore rosa grande come un fagiano. M’inginocchiai dinanzi a quel fiore, ed esso aprì i suoi magnifici petali, che prima erano chiusi. – Sono il signore della foresta vergine – mi disse – tu hai donato saggezza a questi miei stupidi sudditi, che lottando per raggiungere il sole hanno finito col precludermi la sua luce. Grazie a te, la luce splende di nuovo sui miei petali addormentati. Accetta il mio polline. E’ magico. Potrà esserti utile. –

Aprii il fagotto e ne trassi un sacchettino di juta, che riempii col magico polline del signore della foresta vergine. Lo ringraziai e proseguii il mio cammino, giungendo al limitare della foresta.



Parte II – Non sempre chi cerca trova.


La foresta era ormai solo un ricordo che mi osservava alle spalle mentre lo abbandonavo. Il terreno sotto i miei piedi divenne soffice a causa della morbidezza dell’erba verde che copriva la radura in cui ero giunto. Notai un gran via vai di insetti, così mi piegai in ginocchio e chiesi loro perché erano così scalmanati. – Oh, non sappiamo più che fare! – urlarono quelle povere bestioline – il cavaliere brucerà la radura e noi tutti moriremo! Oh poveri noi! Poveri noi! –

Cercai allora di tranquillizzarli e chiesi loro perché il cavaliere voleva bruciare la radura.

- perché non trova più un oggetto a lui caro. Sono anni che lo cerca. E’ convinto di averlo perduto nella sua radura e siccome non lo trova allora ha deciso di bruciare tutta l’erba, così lo troverà per forza. Oh, ma poi come faremo noi esseri dell’erba? Sono anni che lo aiutiamo e questo è il ringraziamento! – Mi alzai e promisi loro che sarei andato a trovare il cavaliere e che avrei cercato di convincerlo a non fare ciò che intendeva fare. Loro esultarono e mi indicarono una casetta lontana, dicendomi che quella era la dimora del cavaliere. M’incamminai.

La casetta era proprio minuscola, ma indubbiamente comoda per un uomo solo. Al lato sud era legato il cavallo. Uno splendido demone nero, dalla muscolatura massiccia e dagli zoccoli giganteschi. Una vera furia della natura. Scalciava e nitriva nervosamente. Bussai quattro volte alla porta. Un uomo molto più alto di me mi aprì. Indossava un’armatura ormai arrugginita, logora dal tempo. – Che cosa desiderate, giovanotto? – mi chiese. – I grilli e le formiche, le cavallette e gli scarabei, tutti gli insetti che popolano il vostro prato, signore, sono preoccupati perché dicono che volete bruciare loro la casa. – Lui mi fissò dall’alto in basso e poi mi fece cenno di entrare, lasciandomi libera la via. Mi sedetti sulla sedia più vicina all’uscita e lui si accomodò di fronte a me, dall’altro lato del tavolo di legno. – E’ così ragazzo – mi disse amaramente – mi ci trovo costretto. Ho perduto un oggetto senza il quale non posso assolutamente far ritorno alla corte del mio sovrano. Me lo diede in custodia, non posso tradire la sua fiducia. –

- E di che oggetto si tratta? Le spiace dirmelo? -

- Beh, è la Chiave. –

- Quale chiave? –

- Ah, io non so assolutamente cosa apra questa Chiave. So solo che il sovrano ha bisogno di quell’oggetto più di qualsiasi altra cosa. Ed io l’ho perduta! Domani mattina incendierò l’intera radura e finalmente la Chiave tornerà in mio possesso. –

- Non temete di distruggerla così? –

- Assolutamente no. La Chiave è magica. E’ indistruttibile. –

- Ma non imperdibile – mi azzardai a dire. Lui sorrise compiaciuto per la battuta. Continuai:

- Mi ascolti signore, deve esserci un altro modo per ritrovare quest’oggetto. perché non si sforza di ricordare quand’è stata l’ultima volta che l’ha tenuta in mano? –

Lui riflettè a lungo. Poi mi rispose:

- Ricordo che l’ultima volta che l’ho stretta in mano, è stata quando ho cavalcato per l’ultima volta con Fiero, il mio nobile destriero. Ricordo che quando tornai a casa quel giorno, la Chiave era già scomparsa. -

- Vi siete accorto di quant’è nervoso il vostro cavallo? Per quanto sia un cavallo massiccio e potente, temo che morirà se continuerà ad essere nervoso. –

- Ciò che mi dite, giovanotto, è vero. L’ho notato anch’io. –

- E da quanto tempo è così? –

- Adesso che mi ci fa pensare, giovanotto, rammento che Fiero ha iniziato a comportarsi così proprio il giorno in cui ho perso la Chiave. Evidentemente è stato l’influsso magico dell’oggetto a renderlo così. Pensate infatti che da allora non ho più potuto osarmi cavalcarlo! –

Senza dir nulla, mi alzai ed uscii dall’abitazione. Sentii che mi stava seguendo. Raggiunsi il cavallo e lo osservai. Appena noto la nostra presenza il cavallo iniziò a sbuffare. Mossi il primo passo verso di lui. Il cavaliere mi trattenne dicendomi che un bel calcione non me lo levava nessuno se facevo un altro passo. Lo convinsi a lasciarmi andare e feci un altro passo. Uno zoccolo mi colpì allo stomaco con una potenza inimmaginabile. Il dolore fu acuto e l’urto mi spinse a più di due metri di distanza. Subito il cavaliere mi aiutò ad alzarmi e prese il frustino ed iniziò a frustare il povero animale. Allora mi rammentai di ciò che diceva sempre il mio Maestro: “non è con la violenza che otterrai aiuto. L’aiuto è amore e con la violenza non puoi ottenere amore, ma solo odio. Perciò, sii caritatevole e sii violento d’ingegno, non di pugno. “

Fermai il braccio del cavaliere e gli feci posare la frusta. Aprii il fagotto e ne estrassi il sacchettino di juta contenente il polline del signore della foresta vergine. Ingurgitai la dolce polverina gialla e mi riavvicinai al cavallo. Un altro portentoso calcio mi colpì il volto, ma non mi mossi, neanche sentii l’urto. Il cavaliere trasaliva alle mie spalle, mentre appoggiavo una mano sulla morbida criniera della belva.

- Dimmi, mio gigantesco amico. Tu sei così forte e bello, eppure qualcosa ti turba. Dimmi, cos’è, mio agile e potente amico. – gli sussurrai all’orecchio.

- Oh, il tuo alito profuma del magico polline del signore della foresta vergine non è vero? – mi chiese lui.

- E’ così. –

- Devi essere molto saggio se hai potuto davvero ottenere quel polline. Oh, tu che sei così saggio, aiutami, ti prego! Sono anni che il mio zoccolo destro mi fa impazzire dal dolore! –

- Dunque è il dolore ciò che ti rende così nervoso. Mi permetterai di guardare il tuo zoccolo? Io ti aiuterò se potrò. –

Lui sollevò tacitamente lo zoccolo posteriore destro. Andai a guardare e un’immensa felicità mi colmò l’animo: all’interno dello zoccolo, conficcata in profondità nell’osso e nella carne, giaceva l’oggetto ricercato dal cavaliere. Il polline mi conferì la forza necessaria ad estrarla senza il minimo sforzo. Fiero nitrì dal dolore, ma fu solo un attimo. La quiete prese presto il posto della tempesta.

Carezzai Fiero, il quale mi ringraziò e poi mi avvicinai al cavaliere che mi guardava meravigliato. Gli consegnai l’oggetto che cercava e lui lo prese, quasi tremando.

- Oh, giovanotto, tu parli con le bestie e resisti agli zoccoli degli stalloni. Non potrò mai ringraziarti abbastanza. Ma forse un modo c’è.. Prendi Fiero con te. Ti porterà dove devi andare dieci volte più velocemente di quanto tu possa a piedi. Per quanto mi riguarda, giungerò al lontano castello del mio sovrano a piedi, come penitenza per aver picchiato così il mio cavallo, per essere stato sordo alle sue suppliche e per aver quasi distrutto la vita di migliaia di creature invano. Addio, giovanotto. -

Si voltò e se ne andò. E così feci io, in groppa al mio nuovo amico e compagno di viaggio. Il vento era gelido mentre contrastava la folle velocità di Fiero, che rapido come il fulmine mi conduceva verso le montagne.



Parte III – Indovina orsù!


In meno di un giorno, raggiungemmo i Monti Salaman. Ormai solo la galleria che li attraversava mi separava dal palazzo dei tre Buddha. Giunti all’entrata della galleria, ringraziai immensamente Fiero per avermi condotto così velocemente alla mia meta, lui non avrebbe potuto continuare oltre.

- Addio Zentah. Tu mi hai insegnato molto. Raggiungerò il mio vecchio padrone e lo condurrò al castello. perché tu mi hai insegnato a perdonare e ad essere caritatevoli. -

Non lo rividi mai più.

La galleria era buia e gelida. Aprii il fagotto e vi trovai una calda mantella nella quale mi avvoltolai. Così andava meglio. Camminai per molto tempo finché incontrai sulla strada uno strano essere. Era tutto nero, a forma di coccodrillo, ma al posto delle tremende fauci aveva labbra umane e anche il resto del volto era umano, tipicamente femminile e anche molto bello. Le zampe erano simili a quelle delle galline e invece della lunga coda loricata possedeva la magnifica coda a ventaglio dei pavoni. Salutai la creatura e lei mi sorrise. Poi parlò.

- E tu dove vorresti andare? -

- Dall’altra parte della montagna. –

- E come mai ci vuoi andare? –

- perché devo salvare il destino del mondo. –

- E perché vorresti salvare il destino del mondo? –

- perché tutti noi ci viviamo ed è giusto fare tutto il possibile per salvarlo. –

- E chi sei tu per decidere cos’è giusto e cos’è sbagliato? –

- Nessuno, esattamente come te. –

- Chi ti dice che io sono nessuno? –

- Se tu fossi qualcuno non sprecheresti la tua vita a fare domande inutili alla gente che incontri. –

- Ah! E’ così, eh?! Molto bene! Visto che non ti piacciono le domande, passiamo ai fatti! Se non risponderai correttamente a questi quesiti che ti porrò, io ti fracasserò il cranio e mangerò il tuo cervello, così che la mia intelligenza possa crescere ancora.

- Dunque tu ti nutri dell’intelligenza altrui. E’ così? –

- Sì e prima di te ho mangiato miliardi ci cervelli perciò sono intelligentissima! Non riuscirai a passare! –

- Dimmi. Sono pronto a rispondere ai tuoi quesiti. –

Aprì la coda a ventaglio e si alzò sulle zampe posteriori.

- Ecco – disse – il primo quesito. Indovina, orsù! Vedo il giorno, non vedo la notte. Son seguace del sole, non della luna. Del felino ho le zanne, ma delle piume ho il peso. Chi sono? -

Mi sedetti e iniziai a pensare. Nessun animale diurno dotato di zanne feline pesa come una piuma. E nessun oggetto è seguace del giorno. Non trattandosi di oggetto, né di animale, il mio pensiero balenò al mondo delle piante. Si. Esisteva un fiore seguace del sole, col peso di una piuma, ma con i denti di un felino! Mi alzai e risposi:

- Tu sei il dorato girasole che si schiude di giorno per seguire il sole e che molti chiamano dente di leone, perché candidi e aguzzi sono i semi tuoi. -

La creatura stridette acutamente ed imprecò, maledicendomi. Poi parlò:

- La prima risposta è corretta, ma la seconda non lo sarà! Il secondo quesito! Indovina, orsù! Per noi puoi vedere, ma non puoi vedere noi. Chi siamo? -

Non dovetti riflettere a lungo, trovai semplice la risposta:

- Voi siete i miei occhi, che tutto possono vedere meno che sè stessi. -

Di nuovo la creatura urlò e bestemmiò, gridò il mio nome e lanciò altre maledizioni. Dalla sua bocca divampò una fiamma vermiglia ed i suoi occhi presero a brillare.

- Hai indovinato anche questa volta, ma non accadrà più! L’ultimo quesito! Indovina, orsù! Il mio nome indica il luogo ove giace la sanguigna bevanda e leggendolo al contrario è il nome del morbo di golosa ingordigia. Qual è il mio nome?

Sinceramente temetti che stavolta non sarei riuscito a rispondere. Ma la risposta mi parve stranamente limpida nella mia mente. Non potei trattenermi dal rispondere:

- Il tuo nome è enoteca, giacchè in te risiede il sanguigno vino e leggendolo al contrario s’ottiene il nome della malattia dell’ingordigia: l’acetone. -

Questa volta la creatura divenne completamente rossa ed iniziò a gonfiarsi sempre più. Urlava di dolore e il suo cranio stava per esplodere. Potè solo più dirmi che l’avevo sconfitta. Poi il suo cranio si spezzò ed emanò una luce abbagliante che mi accecò per qualche secondo. Quando riaprii gli occhi, la creatura era scomparsa. Improvvisamente mi sentii strano e notai che la luce mi stava avvolgendo. D’un tratto entrò in me. Mi sentii pervaso da quella luce, che era anche calda e rassicurante e sentii diffondersi in me l’esperienza dei miliardi di anime che mi avevano preceduto e che avevano fallito. Conobbi le risposte di domande che mai m’ero posto. Sapevo. Io sapevo ogni cosa. Di qualunque esperienza terrena sapevo tutto adesso. Sapevo cosa voleva dire aver amato, aver ucciso, aver fornicato, aver provato dolore, aver provato tristezza, malinconia, paura; tutte le emozioni, tutti gli stati d’animo, tutte le esperienze mi appartenevano ed io appartenevo a loro.



Parte IV – Il palazzo dei tre Buddha.


L’uscita della galleria mi fece ritrovare in una landa desertica. Non un filo di vento, non un rumore. Poi, lentamente, un tappeto rosso arrotolato planò giù dal cielo per posarsi delicatamente ai miei piedi. Si srotolò in tutta la sua lunghezza ed io vi camminai sopra percorrendolo fino alla fine. Porsi la mia mano avanti e sentii che l’avevo poggiata su di una superficie solida, anche se dinnanzi a me v’era solo l’aria. Spinsi e fu come aver aperto una porta invisibile. Aldilà di essa potei vedere l’interno del palazzo dei tre Buddha. La varcai ed essa si chiuse alle mie spalle. Mi ritrovai in un grande salone dalle piastrelle porpora e dalle pareti arancio pesca. Dinanzi a me giacevano in posa da meditazione i tre Buddha. Mi avvicinai e mi fermai a circa due metri di distanza da loro.

Erano statue. I loro volti erano sereni, ma il loro corpo era di gelida pietra. Allora avvenne. La luce che prima mi aveva pervaso ora m’abbandonava nuovamente per andare a pervadere quelle tre statue. La luce filtrò in esse e la roccia si fece carne. I tre Buddha erano tornati carne.
 

Sorridevano e la loro pelle era dorata, emanava una splendida luce. Mi parlarono all’unisono:

- Noi siamo i tre Buddha che regolano il mondo. – mi dissero, poi ad uno ad uno si presentarono:

- Io sono Nascita. –

- Io sono Vita. –

- Io sono Morte. –

Poi ripresero a parlare all’unisono:

- Tu chi sei? – mi chiesero, nonostante certamente sapessero il mio nome.

- Sono Zentah, miei signori, un semplice uomo. –

- Zentah, semplice uomo, noi reggiamo le sorti del mondo e dell’universo. Questo onere tocca a noi perché è sempre stato così e perché siamo immensamente saggi. Ma nella nostra saggezza, abbiamo commesso un gravissimo errore. Abbiamo dimenticato che la saggezza non deriva solo dalla meditazione, che stimola la mente ma indurisce l’animo. Abbiamo dimenticato che la saggezza è anche esperienza. E segregandoci qui, in questo palazzo ove, abbiamo meditato così a lungo che i nostri cuori si sono impietriti e il destino del mondo ha vacillato. Oh, tu hai sconfitto la Connubila, la terribile creatura che divorava l’esperienza, privandoci così della conoscenza delle emozioni umane. Tu ci hai liberato Zentah! Ora il nostro viaggio avrà inizio. poiché questo palazzo sarebbe solo una prigione per il nostro animo, noi assumeremo forme umane, ci faremo vera carne e patiremo tutte le sofferenze e godremo di tutti i piaceri dell’uomo. E la nostra morte porterà nuova esperienza nella nostra rinascita ed il ciclo si interromperà solo con la fine dell’universo, sicchè non potremo mai più dimenticare le esperienze degli uomini. –



Epilogo - Ogni cammino ha una fine.


Non so cosa accadde poi. So che la luce avvolse tutto. So che mi ritrovai dinanzi alle porte del mio villaggio, seduto, in posa da meditazione. Mi alzai e varcai i cancelli e la gente mi corse incontro gridando il mio nome, e le voci si sovrastavano a vicenda:

- Zentah è tornato! Zentah è tornato! Evviva Zentah! -

Sì.. Zentah è tornato.



Fine

 

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