PREMESSA: Chiedo anticipatamente scusa per la lunghezza immane...
Dunque, vorrei tentare di insinuarmi tra i rivoli impetuosi di questa discussione, che sinceramente ho trovato assai stimolante e capace di lambire parecchi nodi tematici.
In questa sede, però, vorrei lanciare una piccola provocazione nei riguardi di Goth, che mi è parso particolarmente tenace nel perorare le sue convinzioni dal gusto positivistico. Colgo l'occasione quindi per esprimere la mia personale ottica in merito a questo tipo di formulazioni, a fronte anche degli studi recenti proprio sull'argomento.
Iniziamo dall'osservazione evidenziata:
Goth ha scritto:L'Universo esiste e basta al di fuori del tempo. Tuttavia al suo interno si può definire una linea temporale che parte da uno stato particolare dell'Universo dove tutta la materia era compressa e finisce al momento del completamento della morte termica. Ma tutto questo processo di trasformazione dell'Universo (la sua storia) è all'interno dell'Universo stesso.
Ciò che mi desta perplessità qui, e che produce effettivamente una notevole discrasia, è che tutte le dissertazioni che si pronunciano in maniera
affermativa sulle categorie ontologiche (come la nozione di "universo" o di "tempo") esalano sempre e comunque il loro ultimo afflato sotto gli strali dello scetticismo più caparbio, incagliandosi puntualmente nel pantano delle innumerevoli istanze dubitative.
Goth, tu sostieni con tanta pugnacia che sia sempre esistito l'universo, peraltro in un'accezione che integra - a mio avviso indebitamente - una moltitudine infinita di nozioni. Di qui passi a decretare con altrettanta sicumera l'esistenza
concreta del tempo in base a una definizione inclusiva.
Eppure dovresti inevitabilmente sotterrare quest'ascia da guerra, allorché ti trovassi dinanzi alla fatidica prima domanda della metafisica che tanto attanagliò Heidegger:
"
Ma perché mai esiste qualcosa invece del nulla?"
Da qui deriverebbero i primi scossoni:
"ma come facciamo a essere così sicuri che esista qualcosa, o che NON esista qualcosa? Non potremmo essere tutti, che so, abbindolati da una dinamica che ci sfugge, illusi nelle nostre stesse pretese conoscitive? Per quel che ne può sapere qualsiasi essere umano, potremmo pur sempre essere dei cervelli situati in una vasca, a cui vengono dispensate suggestioni, percezioni e intuizioni mentali del tutto fatue e ingannevoli! In realtà non è che possiamo dire granché sulla Verità, sull'Esistenza e su tutte queste macro-categorie indistinte!"
Così, la tua posizione, così salda, perentoria e incrollabile, verrebbe scacciata dal suo scranno.
A quel punto potresti postulare una causa motrice iniziale, che però è sempre e comunque vulnerabile alla stoccata dei famosi "regressi infiniti", oppure potresti correre (come fece Quine tra gli altri e come forse tu già stai facendo) a trincerarti nel comodo rifugio della "inferenza alla migliore spiegazione", ossia quel tipo di giustificazioni che vertono sulla presunta plausibilità e massima ragionevolezza delle proprie attuali posizioni conoscitive.
Tuttavia, anche queste ultime potrebbero in teoria essere suscitate da una parvenza del tutto fittizia; e così si scivolerebbe ancora nell'inaggirabile paradosso del mentitore.
E via discorrendo così, ad libitum.
Ora, altrove ho visto schierarti con grande salacia contro certe convinzioni di carattere teologico o religioso.
Il fatto è che la portata così ciecamente affermativa, inopinata ed empiristica delle tue affermazioni svela in realtà una venatura analogamente
dogmatica, che sembra percorrere la dorsale di tutti i pensieri da te espressi.
Vedi, il problema è che purtroppo simili asserti risulteranno sempre e comunque molto flebili, oltre ad essere inevitabilmente inermi di fronte alle controversie sobillate dal vero agnostico.
Costui avrà sempre la facoltà di addurre la replica del sospetto della "gabola dei sensi", o dell'inattendibilità delle nostre determinazioni intellettuali, o addirittura, come è il caso del Cartesio più tardivo, potrà supporre che un genio maligno vegli su di noi e codifichi persino le stesse leggi matematiche a cui ci atteniamo come cardini di tutta la nostra impalcatura!
Come si fa a perorare, senza alcuna remora e reticenza, che il mondo esista e che abbia questo o quel connotato, e addirittura statuire che il tempo ne rappresenti un tassello interno, tangibile e concreto?
La conoscenza non si poggia
in ogni caso, fin nei suoi recessi più basilari, su un primigenio atto di fede, una primordiale convenzione, un accordo fideistico tacitamente consolidato?
Basta una "semplice" suggestione logica - che poi in realtà è la più forte di tutte - a corrodere le fondamenta di qualsiasi epistemologia che voglia arrogarsi la pretesa di tessere un pronunciamento affermativo sulla
Verità incrollabile del proprio costrutto.
Le posizioni dogmatiche, sia quelle religiose che quelle positivistiche, non scaleranno mai la vetta apicale della certezza incrollabile, perché il dubbio del vero scettico, l'esuvia dell'agnostico più verace e autentico è sempre, sempre in agguato.
Gli unici approcci veramente "ragionevoli" rimangono il dubbio, il fallibilismo, l'agnosticismo e posizioni affini. Anche Peirce e Popper sarebbero d'accordo.
Tutto questo vale per quanto riguarda la questione strettamente conoscitiva/epistemica.
Passiamo al piano etico.
Attenzione perché le conclusioni qui affrescate non devono assolutamente condurre alla più inerte afasia.
Non me la sento infatti di concordare né con Arcesilao appunto, né con Sanches, ma piuttosto condivido sentitamente l'approccio savio ed arguto di David Hume: io penso (e qui forse entra in gioco la "pars costruens" della mia personalissima visione) che quel valore semantico decurtato al dogmatismo empirico possa essere restaurato in una filosofia inviduale ed interiore della prassi e dell'etica.
Qui finalmente arriviamo a un timido abbozzo di una concezione sul tempo.
Direi che per me la temporalità è (solo?) una direttrice, più morale che esistenziale, la quale finisce per connotare distintivamente la nostra libertà in quanto individui storici, che proprio in virtù della propria finitezza si elevano sulla natura quieta, ciclica, statica e immutabile.
Chiaramente mi ispiro molto a Hegel e allo stesso Heidegger di cui sopra.
Dunque, è proprio perché abbiamo un inizio e una fine, perché siamo inevitabilmente contenuti entro gli argini di una contingenza radicale, che possiamo ergerci con la nostra azione e con
l'opera della nostra possibilità esistenziale, restituendo a questo "tempo" così la sua valenza più autentica, ossia quello spiraglio di storicità che conferisce nerbo e significato a noi stessi.
Una circolarità virtuosa, insomma, che converge nel soggetto, nonché nella sua assimilazione, elaborazione morale e creazione autonoma, intenzionale e
critica di sé e dell'oggetto che di volta in volta costui esperisce nella propria storia. È solo così che l'uomo diventa dio di sé stesso.
Alla fine, "homo faber suae fortunae, suae historiae, sui temporis et sui mundi", che in realtà è proprio ciò che asseriva Nightmare, seppur in altri termini.
Tutto il resto è incerto, eternamente dubbio, o forse appunto irrilevante.