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PhoenixDown
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PhoenixDown's creations

Messaggio da PhoenixDown »

per ora posto una fan fiction su Final Fantasy VII che sto scrivendo ^_^ Eccola a voi

UTOPIA

Prologo

Guardava il cielo coperto di densa umidità, mentre una nube ruggiva la sua protesta tuonando uno straziante canto. L’uomo se ne stava con lo sguardo rivolto a quel grigio pallore, mentre l’acqua iniziava a solcargli il volto ed insistente gli picchiava la pelle.
La chiamano pioggia.
Lui la amava. La pace si diffondeva nella caotica città di Midgar, la notte calava la sua scura coperta e la gente, tra buio e gocce, chiudeva le porte e si abbandonava al sogno, donando il silenzio che raramente poteva sentire.
Ma non c’è pace, quando c’è guerra.
Ma non c’è amore, quando c’è odio.
Mai ci sarà uno spazio per il silenzio, sempre il rumore riecheggerà.
L’angelo della morte aprì i suoi occhi. Il sangue gli accarezzava la mano destra. L’uomo inerte tra le sue braccia esalava l’ultimo respiro e abbandonava il mondo, scomparendo tra il verde brillante del flusso vitale.
Perché la guerra solcava Midgar.
Perché l’odio investiva la gente.
Nessuno dormiva, niente era in silenzio.
Tutti gridavano, ogni cosa faceva rumore.
Solo il sogno era rimasto, ma quell’illusione di silenzio non poteva essere reale.
Il cielo donava sangue, acqua che non portava calma.
Pioggia che passava pianto.
E lui…Lui era l’angelo della morte.
Lui avrebbe sanato ogni cosa.
Lui avrebbe ucciso, per creare.
Lui avrebbe costruito il nuovo mondo, per vivere.
Lui era Sephiroth.
Ultima modifica di PhoenixDown il 28 mar 2011, 22:07, modificato 1 volta in totale.
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Re: Utopia

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UTOPIA

Capitolo 1 – Peccato

“La tua anima è velata da un soffice strato di peccato.”
Con lo sguardo rivolto davanti a sé, verso quella porta sporca di ruggine e vinta dagli anni lasciatisi alle spalle, non poteva smettere di pensarlo. Il suo era un inequivocabile peccato. Cosa faceva, dopotutto, se non uccidere e seminare morte? Spazzava via i pochi sorrisi rimasti con la sua presuntuosa voglia di mettere a posto le cose. Potevano anche solo essere messe a posto quelle cose? E poi, quali cose?
Troppe domande. Tante incertezze. Nessuna meta.
La sua era solo un’idea, un’inesatta, imprevedibile e pazza convinzione. Era giusta, era sbagliata? Chi lo poteva dire, chi determinava il giusto svolgersi dei fatti e degli eventi. Non credeva più a nulla se non a sé stesso.
Decise di varcare quella porta, quel misero ingresso che avrebbe determinato l’inizio verso la sua scalata all’inferno. Cigolava, quasi ironicamente, tetra, buia e completamente sbagliata.
C’era della polvere nella stanza, i mobili erano intasati da una spessa patina di grigia vecchiaia e vinti dal tempo si arrendevano alla degradazione. Il salotto d’ingresso era spoglio, senza niente a fargli le veci, tranne un leggero profumo di malinconia e ricordi perduti. Che tristezza.
Accese la luce, il sonoro click dell’interruttore si diffuse per tutto l’appartamento. Tutto era così vuoto che un suo semplice passo determinava un forte rimbombo, udibile anche dall’anima più cieca. La lampadina appena accesa illuminò lievemente poca parte della stanza, ruggendo la sua protesta e voglia di non collaborare. La luce era morta. Tutto era morto.
Anche lui era morto.
Alla fine quella piccola lampada decise di funzionare, accendendo di tetro splendore quel posto che un tempo poteva considerare casa. Che doveva considerare casa. Che ormai non lo era più.
Camminò in tondo in mezzo a quella stanza, a quei ricordi perduti, ad una vecchia vita buttata. Aprì altre porte, guardò altre stanze, osservò tutto con cura. Impresse ogni singolo oggetto, ogni minima parte di un posto che non poteva considerare più suo. Non era più suo.
Arrivò alla camera da letto. Sfiorò con un dito le lenzuola che un tempo erano state testimoni dell’amore e della felicità, dell’illusione della stabilità. Ricordava i giochi, i baci, le carezze. Come dimenticarli?
Un grosso specchio era posto alla destra del letto, proprio alla base della finestra rivolta verso la luna che in quella sera aveva deciso di essere piena. Guardò la sua immagine riflessa. La cappa nera gli avvolgeva gentile il corpo muscoloso e ben allenato, lasciando scoperto il petto, arrivando sino alle caviglie. Poteva intravedere delle piccole ustioni e dei leggeri graffi quando si azzardava a passare i propri occhi sulla pelle lasciata esposta alla leggera brezza lunare. Non se ne rammaricava. Quello era il prezzo da pagare. Quella era la strada che aveva scelto. Il dolore fisico era solo un misero granello, un semplice tassello di un puzzle molto più grande. Passò al volto. Nascosto tra quei lunghi capelli color platino che gli arrivavano sino alle ginocchia, sembrava perennemente stampato in una smorfia di disgusto e disprezzo. Le labbra contratte per lo sforzo di non urlare. Gli occhi verdi invecchiati da una patina di assoluta tristezza. I suoi lineamenti erano sempre stati duri, puntigliosi, come se la dolcezza non potesse trovare alcuna dimora nel disastro che era la sua testa.
Lui era un mostro.
La sua immagine, il suo aspetto, non potevano definire la sua persona. Quello specchio non poteva neanche lontanamente rivelare la verità della sua anima. Nessuno avrebbe mai potuto, niente avrebbe mai dovuto anche solo azzardarsi a dargli una definizione. Lui era l’unico padrone di sé stesso.
Soddisfatto del proprio corpo, l’uomo sorrise sarcastico e riprese a camminare. Continuò a muoversi, superando foto, libri, mobili e scaffali sommersi sotto quintali di polvere, sino ad arrivare all’uscio di una stanza. Per anni aveva evitato quell’ingresso, aveva lasciato che i giorni scorressero senza trovare il coraggio di varcarlo. Il peso di quella maniglia era insostenibile.
Entrò, ad accoglierlo solo il cigolio della porta ed una terribile puzza di chiuso. Non era cambiato nulla. L’enorme vetrata, affacciata verso il nero della notte, continuava ad occupare la parete opposta all’ingresso. Il piccolo divanetto di pelle nera era ancora posizionato davanti a quest’ultima. Le tele che intasavano il resto del perimetro erano ancora presenti, sormontate solo da pennelli e barattoli dei più svariati colori. Metà del suo cuore era contenuto in quella stanza. Dipingere era stato per lui una fonte di inesauribile felicità. Aveva passato gran parte della sua vita a riempire quelle tele di colori, paesaggi, persone, oggetti… Il suo dolore, la sua pena, il suo tormento, ma anche la sua gioia, erano contenuti in quella stanza.
Volse di poco il capo verso un punto specifico, quel punto. Se la stanza conteneva il motivo dei suoi peccati, in quello spazio risiedeva l’artefice della sua morte. Era ancora bellissima. Il suo volto sopra quelle tele era rimasto immacolato, il passare degli anni non poteva distruggere la sua perfezione. Eccola lì, capelli castani, occhi verdi, volto dai tratti delicati e gentili. Selen. La sua vita era racchiuse in quei dipinti.
Se chiudeva gli occhi poteva quasi vederla, sentire la sua voce. Poteva sognare di averla vicina. Ma lei non era altro che concime per i vermi, sottoterra, abbandonata al paradiso che meritava. E lui era rimasto da solo, in preda all’inferno, a dei demoni che avevano iniziato a sussurrargli suadenti parole. Frasi che iniziava a bramare…

Era ancora notte, era ancora buio. In sottofondo si poteva avvertire il leggero brusio di un abile pianista. La Moonlight Sonata di Beethoven scorreva tiepida in mezzo al languido suono di un sottile presagio che aveva già fatto il suo ingresso. Quale più perfetta melodia, quale più appropriata introduzione alla morte. La sua candida essenza, la sua inestimabile rovina lo guardava sorridendo, come sempre, timida e semplice.
Aveva i capelli castani, fluenti nel vento, e quell’aria dolce che la cottraddistingueva. Era la sua musa ispiratrice, il suo inestimabile tesoro. Tutto era destinato a sparire.
Come sempre la stava ritraendo, muovendo velocemente quelle pennellate sull’immacolato telo. Un po’ di marrone, una leggera spruzzata di nero… Ed eccola, lì, completamente perfetta, sdraiata sopra quel divanetto e le nudità nascoste da una semplice coperta di lino.
Scoccò la mezzanotte, come se l’avvenirsi volesse burlarsi del suo cuore. Selen sorrise nel vedere il ritratto completato, lo contemplò e confermò la sua teoria.
-Il tuo lavoro migliore-
Eppure, c’era una tensione che non poteva essere allentata, neanche da quelle parole sterili di leggero candore. Sephiroth osservò bene la sua pelle bianca, completamente pallida. Aveva sempre ammirato quel pallore. Come un angelo, la sua amata era bianca e pura.
Guardò il ritratto. Le somigliava così tanto. Come avrebbe potuto perderla? Come se ne sarebbe potuta andare? Quella era la loro ultima notte, perché la mattina dopo lei sarebbe partita per un viaggio di tre mesi. Selen aveva insistito, non voleva andare, non importava quanto la madre soffrisse, stesse morendo. Ma Sephiroth si era abilmente opposto, dicendole che quella era la sua ultima occasione di dirle addio.
Neanche quello le fu concesso.
Mentre facevano l’amore, mentre i loro corpi si univano, Sephiroth sentiva quella strana tensione che aleggiava nell’aria e che predicava già una morte annunciata.
Ricordava ancora la mattina seguente, mentre si lasciavano e la baciava per l’ultima volta su quel marciapiede. Le disse “arrivederci”, quando la parola più appropriata sarebbe stata “addio”. Ricordava ancora di non essere riuscito a trattenere una lacrima. Ricordava la sofferenza.
Lo chiamarono la mattina dopo. Selen era stata stuprata. Non si sapevano i nomi dei colpevoli, ma c’erano chiare tracce per presupporre che la sua morte fosse stata da stupro.
Stupro.
Ciò significa che qualche pazzo aveva tentato di fare l’amore con la sua amata, l’aveva fatto e poi l’aveva successicamente uccisa.
Stupro.
Selen aveva sicuramente urlato, si era ribellata, ma niente era servito contro le robuste braccia del suo martoriatore.
Stupro.
Una parola che apriva una voragine pazzesca, un vuoto inestimabile. Pianse lacrime amare, imbrattò quell’ultimo ritratto che le aveva fatto. Il colore scivolva giù come fosse stato macchiato da pioggia. Le sue lacrime erano così amare e così frequenti da riuscire a scolorirlo tutto.
Giurò vendetta, guardò quei dipinti raffiguranti la sua inestimabile rovina. Non c’era paragone alcuno per descrivere il dolore che provava dentro. Dilaniante. Sarebbero state migliori cento lame che gli si conficcavano in petto invece di quello straziante dolore interno. Il suo cuore non esisteva più, l’anima era ormai andata a farsi benedire. Lui non esisteva più.
Da uomo si era trasformato, era diventato un mostro. Una spietata consapevolezza iniziava a farsi breccia nella sua anima. Questo lo uccideva, ma contemporaneamente gli regalava una nuova sensazione di onnipotenza e di crudeltà.
Lui era diventato un mostro.
Lui era stato ammazzato.
Lui era successivamente rinato.
Lui era diventato l’angelo della morte.
Lui era Sephiroth.
“Ti vendicherò, dovessi macchiarmi di peccato. Ti regalerò il mio ultimo dono, dovessi distruggere il mondo intero. Ti darò il mio ultimo sacrificio.”

Ahahahah.
C’era un che di divertente in quelle lacrime che iniziavano a pretendere di uscire, in quella pena che non desiderava, nella morte che l’accoglieva.
Ahahahah.
Un che di divertente nelle ginocchia che pretendevano di piegarsi, il corpo che desiderava scendere nell’abisso, le mani che gli nascondevano il volto macchiato di sangue.
Ahahahah.
Era divertente come li avrebbe ammazzati tutti.
Si alzò dalle ginocchia, si asciugò gli occhi bagnati d’acqua salata, diede un’ultima occhiata ai ritratti, pianse nuove lacrime, cosparse di benzina gran parte del perimetro della dimora, accese il fiammifero, lo buttò in mezzo al liquido trasparente, lasciò la casa, la vide esplodere.
Ahahahah.
Era divertente come il suo ultimo tratto di umanità stesse lentamente bruciando.

[f i r s t] [d r e a m]
“Forse un luogo, un fatto o un semplice ricordo perso nei meandri della sua memoria ormai divenuta vuota. Ma non c’era. Quell’inesistente essenza che ogni notte cercava di raggiungere era svanita sotto i suoi occhi, in un leggero sfocarsi dei contorni aveva deciso di abbandonarlo.
Se ne era andata.
Nel buio.
L’aveva lasciato da solo a vagare in quell’indefinibile luogo dimenticato anche da Dio. E lui cercava. Si muoveva, scavava ma non trovava. Perché non c’era. La sua unica ragione d’esistenza non c’era.
Lui lo sapeva. Non c’era mai stata. Non era mai esistita.
Perché se ne era andata ancor prima di nascere.
La sua sicurezza.
Sicurezza su ciò che faceva e toccava. Certezza del suo scopo.
Irraggiungibile.
Ciò che la sua mente covava nel desiderio era inarrivabile.
Perché non esisteva. Non c’era mai stata.
Non c’era…
Non esisteva…
Ed inerme poteva solamente osservare il terreno. La pioggia, ancora lei. La sua missione era iniziata sotto le scuri coltri e sembrava essere destinata a finire nell’oblio.
L’abisso era il suo io. Ciò che è era ciò che lo condannava. Era il suo suicidio. Perché capiva che la spada che lambiva il suo petto non era mossa dal suo amico, ma dal suo nemico. E quel nemico era lui.
L’io.
La scura coltre della nebbia accarezzava i due uomini fermi sul marciapiede.
L’uno era l’assassino.
L’altro lo era stato.
E se la pioggia voleva essere testimone della strage per poterne così lavare le prove come aveva sempre fatto, allora andava bene.
Dopotutto bastava chiudere gli occhi.
Lasciare che la sua vista venisse appannata. Quell’essenza sfuggisse al suo controllo e la sua ragione di vita, ciò per cui tutti i giorni lottava, venisse bruciata da quella semplice affermazione: mi arrendo.
E nel momento in cui l’uomo si inginocchiò capì anche il suo errore.
Aveva chiuso la speranza. Aveva lasciato la certezza. Aveva deciso di non vedere per non soffrire.
E così, ciò che in quel momento considerava un amico gli dava il colpo di grazia. Imprimeva la spada contro la sua carne mentre un grido senza voce si levava dalla sua bocca attorniato dal coro dei tuoni.
Plic.
La goccia che bagnava la spada sporca di sangue seguiva il profilo della stessa prima di cadere nel terreno. E il sangue che fluiva dal petto dell’uomo perdeva colore una volta toccatolo.
Cos’era quel dolore?
No, non era la morte, vero?
Ma la consapevolezza.
Perché in quel momento c’era riuscito ad ottenere una certezza.
Eri sicuro, vero?
Quello che credevi un amico, ciò che pensavi fosse giusto per poter vivere stava rubando la tua essenza per farla sua e così poterla plasmare a proprio piacimento.
Si, in quel momento l’uomo lo sapeva. Il suo sangue perdeva colore, perché lui stava perdendo…
Ciò che era.
E la sua morte era vana perché aveva deciso di lasciar andare la consapevolezza nelle sue convinzioni per potersi abbandonare alla sfocata illusione della comodità.
Ti senti comodo, ora?
Durante la sua morte l’uomo capì di essere seduto su un seducente appiglio di rovi. E per aver lasciato la certezza…
Moriva nel risentimento.
-Amico, mi salvi?-
No, lui non era suo amico.
Aveva finto di esserlo.
-Si, io lo sono.-
Non sempre le parole corrispondono al vero. E la nostra mente produce parole. È una bastarda, una bugiarda.
Ci mente.
Ma guardati, sei tu che menti a te stesso. E menti ancora adesso! Ora che non riesci ad ammetterlo.
-Addio.-
L’uomo era morto, mentre l’altro era sopravvissuto. Il traditore l’aveva spuntata su quello che gli aveva creduto. E il mondo moriva di conseguenza mentre l’assassino aveva finalmente piede libero.
La pioggia si fermò, mentre la nebbia, che contagiata dai reattori aveva assunto una tonalità verdastra, sembrava sfittirsi per permettergli di vedere un immensa porzione di Mako.
E lui c’era, finalmente c’era arrivato.
Macchiata dal sangue e dal tradimento, eccola la sua terra promessa…
L’inferno.”
[first dream] [e n d]

-Zack?-
-Mh?-
Il Soldier alzò lentamente gli occhi verso Cissnei. La ragazza dai capelli castani, leggermente ondulati, e gli occhi verdi, lo guardava con un grande sguardo di rimprovero. Le mani erano incrociate, come a voler sottolineare il suo errore. Si era addormentato al lavoro. Sentì lo scoppio di un tuono, e il borbottio di una voce. Guardò fuori la finestra. Pioveva, come se quelle misero gocce potessero lavare il nuovo sangue e spazzare le nuove morti. Ovviamente non potevano.
-Ti sei di nuovo addormentato al lavoro, quante volte dovrò dirtelo? Finisci quelle pratiche!-
Zack sbadigliò, ignorandola completamente, ed incominciò a guardare I vari rapporti sparsi sopra la scrivania. Nuovi morti, nuovi casi di persone scomparse e lui. Come sempre aveva fatto una strage. Non si conosceva il suo nome, non si aveva una sua foto, possedevano solo un suo fascicolo con le morti causate dai più svariati metodi e un sua firma, fatta abilmente con il sangue. L’angelo della morte. Un altro pazzo che si diceva salvatore del disastro in cui era da sempre immersa la loro città. Anzi, l’intera nazione. Una guerra tra due schieramenti continuava ad andare avanti, Shinra ed Avalanche. Solitamente il 70% dei rapporti era dato per colpa di quel grande conflitto, che percorreva la città da più di due anni. Persone che impazzivano, perdevano il senno, ed iniziavano ad ammazzare chiunque gli capitasse a tiro. Anche se questo tizio era diverso. Dava segno di avere una grande intelligenza e una grossa dote in fatto di azioni militari. Degno del nome di Serial Killer. Aveva già ucciso tre persone, e loro non avevano la benché minima pista da seguire.
-Adesso mi metto a farle.-
Replicò il Soldier, senza darle la benché minima traccia di poter replicare. Cissnei borbottà qualcosa di incomprensibile e lasciò successivamente la stanza.
Zack si rilassò appena la ragazza se ne fu andata. Guardò lo studio su cui poggiava. Il grande marchio della Shinra, un rombo rosso come il colore del sangue, faceva la sua bella comparsa tra I detriti del suo ufficio. Era ormai passato un anno da quando gli avevano dato l’amministrazione della sede investigativa. Si vede che mancavano di personale se avevano addirittura dovuto chiamare un Soldier di prima classe ad amministrare una faccenda del genere.
Lui non se ne rammaricava. Se si guardava lo svolgersi dei fatti da un punto di vista diverso, era quasi divertente fare quel lavoro.
Pensò ad Aerith. Pronta ad aspettarlo a casa, tra le coperte calde del loro letto. Quanto l’amava. Era inutile, il suo pensiero andava sempre a finire alla ragazza e… Agli strani sogni che faceva ogni volta. Anche quella sera aveva sognato un ragazzo dai capelli argentati. Chissà chi era, o cosa voleva. Ogni volta, in quei sogni, si ritrovava nelle vesti di quel ragazzo, pronto ad ammazzare un compagno per lo scopo supremo. Quale fosse questo scopo, ne ignorava assolutamente l’esistenza.
Ma, se c’era una cosa che conosceva alla perfezione, era la terra promessa. Dopotutto, era il motivo di tutta quella guerra e di tutto quel casino che continuava ad andare avanti su Midgar da tanto, troppo tempo.
La terra promessa, stupenda landa di felicità ed incontrastati pozzi di petrolio. Era ovvio che una delle due controparti volesse accaparrarsela.
Lasciò perdere, anzi, incomincio a leggere I vari rapporti, continuando a sbadigliare come un ossesso. Quelle piccole pratiche burocratiche sapevano essere fastidiose. Preferiva molto di più il lavoro sul campo.
Cercò di concentrare la propria attenzione sull’angelo della morte. L’unico caso che, dopotutto, lo incuriosisse veramente. Il resto poteva passare benissimo in secondo piano. Aprì la scheda ed inizio a leggerla.

Nome: ignoto.
Età: si presuppone tra I ventisei e I trent’anni.
Vittime: 3
Ultimo avvistamento: un cadavere nel reattore 2.
Modus operandi: l’assassino uccide le proprie vittime con un colpo di spada, si presuppone che l’arma utilizzata sia una katana. A volte si riscontrano bruciature, cosa che fa pensare che sappia usare la magia e che, quindi, debba essere un ex-membro della Shinra. Tuttavia, essendo che in molti utilizzano lo stesso metodo di uccisione, non possiamo dire con certezza il suo nome, nonostante la supposizione possa essere giusta e ristringa il campo di molte migliaia di persone. È solito firmarsi con il sangue con il nome di “Angelo della morte”. […]
Psicologia: non c’è un vero nesso logico nelle sue vittime, sembra più che altro che le scelga a caso, sintomo non molto comune nei Serial Killer. Anche se, osservando I vecchi archivi, appare che tutte le persone morte siano state accusate di stupro e poi successivamente scarcerate. Sono tutti uomini, fin’ora non c’è stata alcuna vittima donna. […]
Maggiori accusati: nessuno.

Era strano. Aveva un modus operandi ed una psicologia alquanto unici, ed era sorprendente il modo in cui non lasciava traccia di indizi. Non avevano trovato assolutamente niente. Era come se il concetto di imperfezione non esistesse per quell’individuo.
Zack sentì uno scoppio ed una leggera movenza nella stanza. Non si preoccupò troppo. Sapeva che era normale, specialmente in quei momenti in cui la guerra si faceva più intensa. Fortunatamente svolgevano I combattimenti al di fuori della città, nel deserto che la circondava. Anche se a volte alcuni degli scoppi raggiungevano l’interno e distruggevano qualcosa. Più di una votla era stato costretto a ripararsi in un bunker per paura di essere colpito.
Avalanche e Shinra. Uno scenario di guerra pocalittico, se non fosse che avevano fatto un trattato per contenersi. Volevano almeno evitare di distruggere l’intero pianeta. L’erba sintetica che spianava la strada alla distruzione di Midgar voleva semplicemente essere un patetico tentativo di portare un poco di normalità. Quello era il delirio. Era l’assoluta apocalisse. La città era ormai un agglomerato di palazzi e persone destinati alla cenere.
Chissà invece cosa voleva quell’individuo, quel Sephiroth. Aveva un modo strano di operare, ed era alquanto strano anche il suo modo di uccidere.
Zack aveva già deciso, quel caso sarebbe stata la sua personale chimera. Il modo per esorcizzare I pensieri e per trovare una via di fuga. Una qualche redenzione a tutte le morti che aveva causato in guerra. Ricordava ancora…

La strage continuava imperterrita, sotto I suoi occhi. Lui era uno dei fautori di quella strage. Vittime innocenti spazzate per quell’egoistica voglia di potere, semplici cittadini lasciati allo sbando per portare prosperità al padrone. Che crudeltà, e che immensa pena.
Muoveva la spada come se nulla potesse evitarlo, faceva leva sulla sua forza come se niente potesse fermarlo. Era incredibilmente potente. Ma tutto quel dolore, quella pena e la sua indelebile colpa non potevano avere confronto con il fine ultimo.
Tornò a casa. Smise di lottare. Impazzì. Come al solito lo diedero alle cure di un nuovo maestro, che lo potesse istituire ad una carica importante ma più semplice. Non poteva continuare ad essere un soldato, non da pazzo. Avrebbe rischiato di distruggere tutti i loro piani, di andare contro il loro fine ultimo.
Oh si, quel fine meritava quella pazzia. Certo, quell’unica conquista meritava la morte di migliaia di persone. Ovvio. Era più che ovvio.
Il sangue, quel sangue che non riusciva ad abbandonarlo. La fine era vicina, lo voleva conquistare e fare suo. La fine stava per riceverlo tra le sue braccia. L’inizio di una nuova fine, la fine di un nuovo inizio.

Ricordava ancora, non importava quanto tempo fosse passato. Ricordava e stava male. Non poteva dimenticare tutto quel sangue, tutte quelle morti. Erano sensazioni indelebili, che non potevano essere cancellate con una semplice redenzione. Non potevano essere spazzate, non potevano lasciarlo tutti quei fantasmi che di notte lo perseguitavano.
Lui era Zack.
Era stato ingiusto, aveva abbracciato nuove idee e aveva massacrato.
Quanta bontà ed innocenza potevano ancora essere spazzate da quell’unica mano della morte? Da quella stessa mano che prometteva prosperità e giustizia?
“Quante?
Ve lo siete mai domandati?
No?
Iniziate a chiedervelo.
E, contemporaneante, agite per la risposta.
Agite, non limitatevi a darla.”
Era questo ciò che aveva sussurrato quando l’accusarono di pazzia. Poche semplici domande e frasi che cambiarono tutto. Che lo portarono qui. Che lo salvarono.
Lo salvarono da quella mano della morte, lo consegnarono ad una parvenza di giustizia. Parvenza.
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Re: Utopia

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UTOPIA

Capitolo 2 – Quarto omicidio

[ s e c o n d] [d r e a m]
E visse una vita di scongiuri, e visse per morire, come se niente potesse salvarlo. L’uomo capiva di aver raggiunto l’inferno. Sapeva che quello stesso inferno l’avrebbe accolto a braccia aperte.
L’uomo moriva.
Moriva perché aveva ucciso, moriva perché si era macchiato di sangue.
E non poteva più semplicemente far finta di nulla, continuare a vivere in questo cinismo di piccolo piacere.
Tutti i fantasmi della sua memoria lo assillavano, continuavano a tormentarlo.
Guarda, un bambino!
Osserva, una donna!
Tu.
Tu.
Tu.
Tu li hai ammazzati!
Tu!
Sei stato tu!
È così che l’uomo desisteva, continuando a credere di essere nel giusto. È così che iniziava lentamente quella logorosa discesa verso l’oblio.
Scendeva, e scendeva, e scendeva…
Non c’era nulla che potesse arrestare quell’incredibile scalata verso quello che sarebbe stato semplice nulla. E allora visse per piangere, visse per inginocchiarsi, visse per non vivere.
Visse in un’oblio scongiurato.
“Ciao, mi chiamo Matteo.”
Il piccolo bambino lo guardava con occhi attoniti, spenti, senza colore. Le iridi erano semplice bianco.
“Ciao, Matteo.”
“Tu chi sei?”
Il bambino senza iridi capovolse un po’ la testa, come a voler mostrare una curiosità che non poteva più sprizzare.
Chi era lui?
Non se lo ricordava. Forse non l’aveva mai saputo. Il suo nome, tra quei rimasugli di sangue, era niente. Il suo tutto era semplice nulla. Non esisteva il tutto, c’era solo il vuoto.
“Sai che mi hai ucciso?”
Matteo rideva, di una risata insana mentre chiedeva quella semplice affermazione. Rideva per non dover piangere, rideva per non dover morire, rideva perché non c’era nient’altro da fare.
TU!
Tu l’hai ucciso! Hai ucciso Matteo! E adesso tutto ti appare diverso. Ora che sai il nome di quel piccolo bimbo, ti sembra di aver fatto una cosa atroce. Ora che conosci quel misero indizio, quell’unica constatazione. Tu hai ucciso matteo.
L’hai ucciso e l’hai condannato, perché forse non esiste neanche gioia dopo la morte per chi ha assistito a quell’inferno. Ma dicono che Dio sia misericordioso, forse ora Matteo sarà in mezzo alle nuvole.
Eppure, quanto poteva essere misericordioso Dio? Così tanto da riuscire a dargli una qualche redenzione? Era impossibile per lui poter ancora ridere, scherzare e essere come prima.
Non c’era più alcuna chance, solo tante opportunità perse. E non gli avrebbero più dato una seconda possibilità, non l’avrebbero più aiutato.
Non esistevano compagni, solo tante persone pronte a pugnalarlo alle spalle.
Non c’era la giustizia, solo tanta fonte di malessere e continua perdita.
Non c’era più alcun io.
C’era solo Matteo, e l’eco di quel nome. Il modo in cui quel nome era sparito per sempre, senza neanche una lapide.
La guerra non concede lapidi, regala solo morti.
[second dream] [e n d]

Sephiroth si svegliò dal letto sudando. Come sempre aveva fatto un incubo. Era ormai un classico, ogni notte sognava qualcosa di diverso e quel qualcosa riguardava il suo passato alla Shinra, o la sua adorata Selen. Non poteva smettere di avere quelle martoriante immagini a fargli da compagnia durante il sonno. Erano ormai divenute le sue personali accompagnatrici tra le braccia di Morfeo.
Si guardò attorno. La decadenza della chiesa nei sottofondi gli faceva da cornice. I muri decomposti dal tempo e quelle panche ormai divenute leggero cumulo di polvero lo guardavano divertite. Le finestre multicolore donavano al tutto una spiacevole luce incandescente. Era quello il suo rifugio, la sua base “segreta”. Quale anima sana di mente sarebbe andato a cercarlo in una chiesa? Non l’avrebbe saputo dire, fatto sta che nessuno era mai venuto a disturbarlo. Inoltre, quella chiesa era abbandonata da secoli e nessuno vi metteva più piede. Era perfetta per il suo piano.
Andò verso la katana e si mise a pulirla. Un po’ di sangue rimaneva sempre attaccato nella luccicante lama della spada. Questo non era concepibile. La sua nuova vittima meritava una lama lucente e affilata, qualcosa che potesse fargli riconoscere, prima di morire, il volto del suo esecutore. Dopotutto, il suo piano era semplice. Iniziare con gli stupratori, finire con i più miseri peccatori. Il mondo sarebbe stato finalmente pulito e non ci sarebbero più state vittime. Non sarebbe più esistita alcuna Selen.
Camminò verso il portatile ed entrò lentamente nel database della Shinra. Essendo un ex-membro, ricordava ancora tutte le prassi per entrare, sia con il consenso che non. Era diventato un abile hacker da quando era ancora un semplice cadetto e con i suoi amici si divertivano ad accedere di straforo nei database a cui non potevano. Il tutto senza farsi scoprire, ovviamente.
Scorse lentamente la lista delle nuove indagini, fino ad arrivare al file contentente gli stupratori. C’era un nuovo indiziato, un certo Hojo. Osservò l’immagine nello schermo. Era un vecchio con i capelli unti e con degli occhiali che gli davano un aria da intellettuale. Lavoro: scienziato della Shinra. Il caso era stato archiviato, e l’indiziato era stato dichiarato “non colpevole”. Facile indovinare il motivo per cui la giustizia non aveva agito. Scienziato della Shinra, uh? Lo ricordava. Era uno dei più abili che avevano nel centro. Figuriamoci se Rufus se lo faceva sfuggire dalle mani, un uomo d’oro come quello… Non aveva bisogno di sapere altro. Quella sera stessa Hojo sarebbe morto.
Chiuse le liste degli indiziati e cambiò pagina. Doveva bene tenere sotto controllo gli agenti incaricati a catturarlo, specialmente quelli della sezione investigativa.
Scorse la pagina. Ben tre investigatori appiopati al suo caso. Eppure, era divertente vedere come non avessero nessuna traccia al loro seguito. Non erano riusciti a scovare nulla. Sephiroth si era ovviamente premurato di controllare ogni cosa nei più minimi dettagli, di non lasciare nulla al caso. Sembrava avesse funzionato. Non avevano scoperto niente. Per essere sicuro, scaricò l’identikit di ogni investigatore e ne fece una stampa. C’erano un certo Zack, una certa Cissnei e un altro di nome Tseng. Quello che lo incuriosì maggiormente fu Zack. Pareva fosse un ex-membro dell’elité scelta dei Soldier, uno di prima classe. Uno come lui.
Ricordava ancora l’inferno a cui aveva dovuto assistere tra le fila spietate di quella sezione della Shinra. Non c’era bontà per i Soldier, esisteva solo lo sterminio. Bisognava avere i nervi d’acciaio per farne parte, perché bisognava essere pronti a tutti. Anche ad uccidere persone innocenti. Non poteva dimenticare le stragi, quei bimbi che li chiamavano e i nomi di quelle persone impressi ancora nella memoria. Ricordava…

-Sai, non credo che combinerai granché se rimarrai fermo come un fesso a commiserarti.-
Il suo maestro era solito ripeterglielo. L’incitava ad alzarsi, a muoversi, a impartirgli qualsiasi ordine che riuscisse a farlo alzare da quella maledettissima sedia. Lo istigava all’azione. Non che gli dispiacesse, o gli fosse mai dispiaciuto, anzi... Avvertire lo spasmo dei muscoli contrarsi per il troppo sforzo era diventata una specie di prassi a cui amava sottoporsi. Adorava prestarsi a quei piccoli, lenti e tortuosi allenamenti.
Ma c’erano dei momenti in cui l’urlo straziante delle vite che aveva sotterrato sotto il cumulo della vergogna lo costringeva al pianto. In quei casi si rendeva conto della crudeltà dell’uomo, del suo essere egoista ed estremamente ingiusto. Una guerra, una lotta andata avanti per anni. Il dominio. Il potere. I soldi.
“L’uomo sa essere egoista.”
Sephiroth respirava quelle misere parole, le dominava per non dimenticare. Le faceva sue per ricordarsi l’unica regola che si era sempre imposto: non esserlo. Aveva assistito alla crudeltà, alla pietà, alla giustizia, alla ferocia. A tutto. Ed era stanco, estremamente stanco.

Non esserlo. Quante volte si era ripetuto quella frase in testa? Non essere egoista. Non esserlo. Eppure, quante volte aveva scavalcato la parola data? Quante?
Tante. Troppe.
Alla fin fine non puoi non ritrovarti immischiato nel giro dei Soldier, specialmente se diventi uno di prima classe. Lui c’era diventato. Era stato tra quelle file ed era stato schiacciato dal sistema. Aveva imparato le uniche due regole fondamentali: non puoi cambiare il mondo e puoi tentare solo di sopravvivere. Lui aveva tentato. Ci aveva provato a non farsi schiacciare da quello spietato giro di morte. Ma aveva miseramenete fallito. Alla fine era stato sovrastato da quello stesso mondo che si predicava “portatore di benessere”. Che schifo! Che immenso schifo!
E non poteva che assistere inerme mentre le grida di centinaia di fantasmi guidavano la sua notte. Non poteva che stare fermo mentre quelle stesse grida predicavano la sua indelebile colpa.
Non poteva cancellare la mano della morte.
Prese un foglio e si mise a scrivere le prime bozze del piano. Uccidere Hojo non sarebbe stato facile dato che era un funzionario tanto importante nelle file della Shinra. Ma doveva provarci. Lo doveva alla povera vittima che non aveva ottenuto nemmeno la più misera condizione di giustizia. Giustizia che lui avrebbe portato, dato che era l’angelo della morte.
Grazie alle informazioni ottenute, riuscì a costruire un piano che l’avrebbe di sicuro portato al suo obiettivo. Doveva solamente fare attenzione a Zack. Ma non gli diede neanche tanta importanza. Dopotutto, lui era l’angelo della morte.

-Ehi, Zack.-
Kunsel si avvicinò all’investigatore che era ancora sommerso dalle pratiche. Gli fece un cenno di saluto. Zack non diede segno di averlo sentito, Era troppo impegnato a compilare i moduli per accorgersi di qualsiasi altro rumore esterno. Allora Kunsel mise il foglio con il nuovo incarico dinanzi ai suoi occhi.
Zack si ridestò improvvisamente, alzò gli occhi e vide il Soldier di terza classe che lo guardava sorridendo.
-Barbone!-
Si scambiarono un abbraccio amichevole. Dopotutto, si conoscevano da circa due anni. Erano stati compagni tra le file dei soldier, due ottimi amici. Kunsel lo guardava da sotto il caschetto di protezione dato in dotazione nella tuta dei Soldier e gli rimise davanti agli occhi il foglio.
-Hai un nuovo incarico.-
Zack prese il foglio senza aggiungere altro e si mise a leggerlo ad alta voce.
-“…La incarichiamo di scortare l’egregio signor Hojo per una trasferta a Nibelheim…” Ehi, che significa? Questo è un incarico da Soldier, non da investigatore!-
Kunsel lo guardò di sottecchi, poi alzò le spalle, come a voler dire: “non prendertela con me”. Che ci potevano fare? Non era la prima volta che gli davano un incarico fuori dallo straordinario, costringendolo a fare cose che non gli spettavano. La Shinra era famosa per spremere sino allo stremo i propri dipendenti e se, quindi, non avevano nessuno di migliore da mandare per certe missioni usavano la “scorta”, che sarebbe stata lui.
-Ti saluto, vecchio mio. Ho una nuova missione tra un paio di minuti. Non farmi più fare il postino!-
-Va bene, vecchiaccio. Ci vediamo.-
Si salutarono così, senza aggiungere altro. Zack era contento di rimanere un po’ da solo. Doveva ragionare, pensare. L’angelo della morte… Si sarebbe concentrato per quella missione secondaria? Ormai la sua testa vagava per altri orizzonti, cercando di scoprire chi fosse questo cosidetto ex-membro della Shinra. Era l’unico indizio che avevano.
Si rilassò un attimo e chiamò casa.
-Pronto.-
Dall’altro capo una voce delicata e soffice lo salutò. Com’era bello sentirla parlare! Era estasi pura. Aerith era una dolce e graziosa ragazza dai capelli castani sempre raccolti in una graziosa treccia e curiosi occhi verdi. Era sveglia, intelligente ed immensamente dolce. La ragazza che ogni uomo vorrebbe. Caso volle che la fortuna li avessi fatti incontrare. Si completavano a vicenda.
-May?-
-May, chi è May?! Zack, sei tu? Dimmi subito chi è questa May!-
L’ex-soldier ridacchiò da sotto i baffi. Com’era tenera quando si ingelosiva. Adorava sentire la sua voce contratta dalla rabbia.
-Stai ridendo? Mi hai fatto di nuovo uno scherzo? Stupido!-
Ridacchiò di nuovo, mentre il suo sguardo si addolciva. Si, era decisamente un angelo.
-Mi scusi signorina, non credevo se la sarebbe presa tanto.-
Dall’altro capo si senti un borbottio incomprensibile in mezzo ad un certo “idiota” pronunciato a denti stretti.
-Non ti aspettare la cena quando torni a casa!-
Cena? Niente cena?! No, non poteva fargli questo!
-Dai, scherzavo!-
-Anzi, ti preparo lo stufato!-
-Tu non mi ami!-
Continuarono così per un bel pezzo, andando avanti tra risate, battute e dolci carezze “virtuali”. Erano così carini insieme. Zack adorava guardare le foto di loro due. Erano come due metà ricongiunte, che si andavano cercando da tempo e che finalmente trovavano qualcosa per completarsi. Il Soldier sbirciò l’ora in cui avrebbe dovuto svolgere quella noiosissima missione. Mancava circa un’ora…

… Al momento. Mancava un’ora all’azione, all’attimo in cui la sua vittima sarebbe morta. Ci sarebbe stata una trasferta a Niblheim con scorta quello Zack. Sarebbe stato allora che Sephiroth avrebbe fatto la sua comparsa. Avrebbe preso la mira contro la sua vittima e l’avrebbe fatta fuori, senza alcuna esitazione.
“Come sempre ti darò il mio sacrificio, Selen. Ti augurerò buona notte e me ne andrò a dormire, sognando la tua pelle candida e il tuo viso dolce e buono. Ti darò il mio sacrificio, amore, e insieme ci riprenderemo ciò che ci appartiene di diritto. Tutto sarà perfetto, il mondo sarà un velo di perfezione. L’unica nota ingiusta sarà che tu non potrai assistere alla mia nuova e grandiosa opera. Ho disegnato un nuovo quadro. Un mondo fatto di uomini giusti e meritevoli. Non ti preoccupare, il tuo assassino perirà insieme agli impuri. Tutti moriranno. Tutti gli impuri saranno spazzati via dalla mia mano caritatevole. Io sono un angelo, amore mio, il tuo angelo della morte.”

-Sbrighiamoci, non ho tempo da perdere.-
La gracchiante voce del professore Hojo incalzava Zack a muoversi. Era da circa dieci minuti che gli avevano messo alle costole quel vecchiaccio e già non ne poteva più. Aveva una voce gracchiante, sgradevole, per non parlare del suo modo di fare e delle parole che gli sputava contro. Odiava quel codino e quei capelli mori unti. Odiava persino quegli occhiali che era solito sistemarsi sul naso con fare da intellettuale. Odioso.
-Certo, signore.-
Non poteva che annuire e sopportare. Se voleva mantenere il posto alla Shinra doveva pur accettare qualche compromesso.
Evitarono accuratamente le zone dove la guerra era in attivo e si incamminarono verso il furgone che li avrebbe scortati a destinazione. Salirono e diedero le istruzioni all’autista.
-Interessante…-
Dopo neanche dieci minuti, il professore aveva iniziato a scrutarlo con fare curioso, come se stesse guardando un animale da esposizione.
-Sei un Soldier di prima classe, riconosco quegli occhi.-
-Si, sign…-
Non riuscì a finire la frase che il furgone si arrestò bruscamente. Erano nel bel mezzo del deserto che avvolgeva Midgar, in una zona completamente isolata dal resto del perimetro. Erano soli, in mezzo al nulla.
-Autista, perché ti sei ferm…-
-Scendete.-
Zack non fece in tempo a chiedere nulla che quello aveva aperto lo sportellone e gli aveva puntato una pistola contro, incalzandoli a scendere.
-Chi è quest’essere?-
Hojo sembrava estremamente infastidito dall’interruzione. La voce sembrava addirittura più gracchiante del solito. Zack osservò minuziosamente il volto del loro aggressore. Aveva i capelli lunghi, argentati, portava una cappa nera e il volto era avvolto da una maschera che non ne permetteva l’identificazione. L’uomo dei suoi sogni. Ma, probabilmente, era solo una coincidenza.
-È uno scherzo?-
-Niente scherzi, vi ho detto di scendere!-
Fece come gli aveva detto. Alzò le mani in segno di resa e fece cenno a hojo di fare lo stesso. Il vecchio, dopo essersi lamentato a lungo, lasciò perdere e seguì Zack.
Si ritrovarono fuori da quell’angusto furgone per stare in mezzo alla sabbia e al nulla più assoluto. Il silenzio della radura era quasi ironico.
-Chi sei?-
Osò chiedere il Soldier. L’altro tolse la maschera e si fece riconoscere. Aveva gli occhi azzurri, chiaramente contagiati dal mako. Continuava a tenere la pistola puntata contro di loro, mentre estraeva da una fodera una katana. Occhi azzurri, Soldier, una Katana… Era chiaramente simile all’uomo dei suoi sogni. Che fosse stato...
Non ci fu tempo per pensare. Il Soldier estrasse la Buster Sword, regalo del proprio maestro, e si avventò contro il loro aggressore, mentre scansava Hojo per non farlo ferire dallo scontro.
L’altro fu rapido ad estrarre la Katana e a rispondere all’attacco. Senza muoversi di un millimetro, semplicemente muovendo la spada, riuscì a parare il colpo.
-Sciocco. Volevo risparmiarti con una morte veloce ed indolore, ma sembra che dovrò riservarti lo stesso trattamento dell’impuro.-
Ed alzò l’altra mano per indicare Hojo. Impuro. Si, non c’erano più dubbi. Quell’essere rispondeva perfettamente alla descrizione dell’angelo della morte. Era in presenza dell’assassino che stavano cercando da tempo. Un’occasione più unica che rara.
-Impuro? Cosa intendi?-
-Tutti coloro che hanno fatto un azione degna della morte sono impuri. Di te non so niente, ma basta che lavori alla Shinra e che proteggi quello per esserlo.-
-E che avrebbe fatto Hojo?-
-Ha stuprato una ragazza, per tua informazione.-
Zack si staccò un attimo dal suo avversario. Aveva davvero stuprato una ragazza…? E lui doveva proteggere un essere del genere? Beh, era il suo lavoro… Ma era anche giusto? Proteggere qualcuno che aveva fatto un atto simile e che non era stato punito?
L’altro gli si avventò contro con un affondo. Non c’era tempo per riflettere, in quell’istante doveva solo sopravvivere. Alzò la Buster Sword e parò il colpo, poi si avvento nuovamente contro l’assassino.
-Sei più forte di quel che sembri, Zack.-
La voce era sarcastica, mentre quello lo guardava con fare ironico. Come faceva a conoscere il suo nome? Sembrava più informato di quel che ne sapevano.
-Che essere affascinante.-
La voce di Hojo riusciva ad arrivare anche a tale distanza, e ad accrescere comunque l’antipatia che provava verso quell’uomo.
Bastò quello. Bastò quell’unica frase per farlo distrarre un secondo ed essere attaccato ad una spalla. Lo tramortì e si ritrovò disteso per terra.
-Prima di tutto il grande impuro.-
Affermò, mentre Zack si contorceva dal dolore. Gli aveva letteralmente distrutto la spalla. Sanguinava copiosamente.
Sephiroth non si fece perdere quell’occasione. Si avventò contro Hojo e nonostante quello tirò fuori una boccetta per trasformarsi in chissà quale mostro per andargli contro, bottiglietta che non fece in tempo a bere, Sephiroth riuscì in un solo colpo ad ammazzarlo. Fu preciso, colpì esattamente in un punto vitale, così da riuscire ad ucciderlo all’istante.
-Peccato, mi sarebbe piaciuto torturarlo un po’.-
Poi estrasse una stilografica dalla lunga cappa che portava e l’intinse nel sangue della sua vittima. Successivamente scrisse sul corpo inerme di Hojo “angelo della…”.
Ma non aveva considerato Zack. Il Soldier era riuscito ad alzarsi e ad andare nella sua direzione. Colpì l’angelo della morte esattamente sul petto.
Quell’unico gesto riuscì a interrompere quell’operazione, tramortendolo a terra.
-Bastardo…-
Brontolò tra i denti. Si riprese, un’ala gli spuntò dalla spalla destra. Con quell’ala iniziò a volare, fuggendo. Zack era già pronto a tirare un altro colpo, per finirlo definitivamente. Sapeva che per uccidere un Soldier contagiato dal Mako un solo colpo non bastava. Ma non fece in tempo. Sephiroth era già volato via.
Quindi, Zack non potè che crollare a terra, esausto, mentre il sangue continuava la sua scalata.

Lo aveva colpito, esattamente sul petto. Fortunatamente era riuscito a fuggire. Non aveva considerato che quello Zack sarebbe stato tanto forte, non se l’aspettava. Era rimasto stupito dal codardo modo in cui l’aveva attaccato. Nel suo nuovo quadro, se l’investigatore non fosse stato un membro della Shinra, avrebbe potuto essere un ottimo alleato.
Sephiroth arrivò alla chiesa, sanguinante, ed iniziò a curarsi con una materia. Energiga. Non l’aveva portata con sé, dando per scontato che non ce ne sarebbe stato bisogno. Aveva fatto male i suoi calcoli.
Adesso, si presentava un nuovo ostacolo, una nuova sfida da consolidare. Ma, c’era da dire che l’angelo della morte era intelligente quanto furbo.
Osservò con aria attonita il cellulare che aveva sottratto a Zack durante il loro scontro. Ogni cosa poteva tornare vitale per il suo nuovo disegno, persino quel misero cellulare.
Scorse i tasti fino ad arrivare ai messaggi.
“Ti amo, Aerith”
Aerith, uh?

I soccorsi non tardarono ad arrivare. Non poteva crederci. Aveva appena visto il volto dell’angelo della morte, era riuscito nell’intento in cui molti avevano fallito. Non sapeva il suo nome, ma bastava dare un’occhiata al curriculum degli ex-membri per trovarlo.
Zack fece un rapido rapporto a Rufus.
-Sei consapevole del fatto che uno dei nostri migliori scienziati è appena morto, vero?-
-Si, ne sono pienamente consapevole.-
Si prese una bella strigliata, e gli tolsero lo stipendio per un mese. Un mese di completo e gratuito servizio. Che schifo.
Disse che non aveva visto il volto dell’angelo della morte, sfortunatamente. Voleva essere sicuro dell’identità dell’assassino che aveva avuto di fronte prima di dire niente. Era una delle regole fondamentali del reparto investigativo: “taci se sai qualcosa, scopri prima di dire, mantieni i tuoi indizi per te.”
Era fiero di sé stesso. È vero, quell’odioso di Hojo era morto, ma una parte del suo inconscio non se ne dispiaceva. Se era uno stupratore, dopotutto, non era la punizione che meritava?
Beh, sapeva la sua risposta. Ricordava ancora gli insegnamenti del suo egregio maestro. Come poteva dimenticarli?
La felicità è reale solo se condivisa.
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