Colazione da Leon
Sorseggiò un tè mentre con lo sguardo cercò tra il via vai in strada trovando solo estranei; le tre, Nataa sbuffò insofferente: era in ritardo. Lo conosceva ma a volte sperava in un cambiamento e faceva male – molto male.
Posò il bicchiere e studiò i lineamenti di una ragazzina a un tavolo più in là chiedendosi quale potesse essere la sua vita e la sua storia, un vecchio gioco che faceva da bambina. Aveva ricostruito il racconto di una ragazza sola – il colore verde delle iridi era fisso e perso sul cielo – alla ricerca di una persona a cui avrebbe donato la vita e il sangue, quando il sole fu coperto dalle spalle larghe di un uomo che le aveva tolto molto e regalato ancora di più.
«Sei in ritardo, Leon. Come sempre.» Stirò le labbra in un sorriso.
«Perdonami.» Sussurrò, il tono poco credibile di chi sa d’esser già scusato. «Dovevo prendere una cosa.»
La donna inarcò un sopracciglio allo spuntare di un mazzo di rose. «Per te.»
«Sei banale, te ne rendi conto? Fiori ogni volta che ritardi.» Corrugò la fronte trovando al centro dell’esplosione rossa un frammento giallo e caldo. «Un girasole: te ne sei ricordato.»
«Non esserne tanto sorpresa.»
Si concesse un momento per osservarlo, per toccare la sincerità di un uomo fatto di maschere e barriere, perché nessuno lo aveva mai sfiorato, non concedeva di arrivare alla sua pelle -quella vera- nessuno viveva i suoi sentimenti, neanche lui stesso.
Era nella solitudine che Leon si mostrava realmente: un cipiglio serio e carico di cicatrici, dolori –ferite– che portava senza rimpianto. Una vita nella polvere della guerra gli aveva insegnato ad andare avanti, nessun rimorso in uno sguardo puntato al futuro mai al passato. I fantasmi erano sussurri che lasciava chiusi fuori la porta, gli parlavano ma lui non ascoltava e continuava la corsa disperata di un sopravvissuto: cercava di non annegare nelle lacrime e vivere con le unghie e i denti.
Nataa incrociò le braccia al petto guardandolo sedersi. «Ti ho ordinato un caffè: macchiato, tre zollette di zucchero. Sei banale.» Aggiunse nel momento in cui l’uomo si protese verso la tazzina.
«Parla la donna ‘io-il-cappuccino-lo-prendo-a-tutte-le-ore. ’» Sulle labbra l’ombra velata di un sorriso di una quotidianità mai scordata. «Di cosa volevi parlarmi?»
Sollevò il sopracciglio da sopra la tazza di tè.
«Non hai ancora specificato che debba essere io a pagare, succede solo in due occasioni: grandi notizie e annunci di merda. Quale delle due?»
«Le persone possono cambiare.» Picchiettò contro la ceramica con l’unghia dell’indice. «Altre restano sempre fedeli a loro stesse e tu, ami sempre saltare i preliminari, Leon.»
Si allungò verso di lei, sfiorandole le dita in un tocco a cui si sottrasse come bruciata. «Sono bravo con il piatto forte, perché sprecare tempo?»
«Io preferisco iniziare dall’antipasto e andare con calma.»
Aggrottò la fronte, Leon, immerso nei ricordi di un tempo che sfuggiva tra le dita. La memoria di una vita in cui avevano condiviso più di quanto avessero da offrirsi l’un l’altra, più di quanto potessero concedersi di perdere per stare vicini e lontani, separati da gradi e battaglie a cui non potevano che chinare il capo per trasformarsi in polvere. Non era ciò per cui avevano combattuto. Esistevano vite destinate a incontrarsi e scontrarsi per continuare su sentieri paralleli, così erano loro. L’amore – se mai avessero saputo che sapore avesse – non sarebbe bastato a respirarsi tra i cocci della guerra.
«Sempre a spese altrui, mi raccomando.» Non era cambiata, non lei che chiedeva senza dare. «Vuoi gustare tutto. Dal primo all'ultimo boccone, indipendentemente da quello che vogliono gli altri.»
Sorseggiò il caffè, i bordi delle labbra inclinati in un sorriso storto.
Aveva ragione, non poteva negarlo. «Non sei molto diverso da me.» Gli rispose e sulla lingua si riversarono i ricordi e il dolore che le lasciò nel momento in cui osservò le sue spalle allontanarsi. Quante volte lo aveva cercato nella notte? Allungato una mano sul vuoto che aveva lasciato nel letto e nella vita? Scosse la testa.
Sorrise l’uomo, consapevole che Nataa poteva leggere oltre i suoi occhi in quel desiderio che gli aveva divorato l’anima; non voleva – non poteva – essere diverso: era uno con lei ma non l’altra metà della mela, non sarebbe stato da loro, solo lama e fodero, cenere e sangue.
«Come stai?» Gli chiese dopo che il silenzio ebbe divorato i minuti. «La verità, non le storie in cui ti nascondi.»
«Come vuoi che stia?» Era un relitto alla deriva e non lo sapeva, continuava a remare imperterrito per giungere a una meta di nebbia e fumo. «Ho ucciso per non morire. E fatto sesso con due cadette idiote.» Negli occhi passò un velo grigio, perché la vita si era spenta dei colori, lasciando l’iride ustionato e contratto in un bianco e nero opaco.
«Sembri triste, Leon.» Tese le dita a sfiorare la barba rasa e sorrise a quel contatto, così antico e nuovo.
«Non lo sono. È apatia.» Si affrettò a rispondere, odiando Nataa e la sua capacità di leggerlo tra le righe. «Tu come stai?»
Si scostò e socchiuse le labbra, poi le serrò in un sorriso e affondò il viso nel bicchiere del tè –nascondendo le parole con altre parole. «Stare con Calien non ti giova. Dov'è il ragazzo sorridente che avrebbe parlato delle due cadette fino a farmi salire la bile? Leon? Dove sei?» Ridacchiò facendo finta di cercarlo sotto il tavolo, poi si schermò gli occhi con una mano e lo cercò tra i tavoli. «Leon! Non fare scherzi e torna qui!» Due signori al tavolo vicino si sporsero e Nataa gli sorrise. «Sto cercando Leon, voi lo avete visto?»
Scossero la testa per tornare alle loro consumazioni, Nataa masticò un ‘antipatici’ prima di tornare con lo sguardo sugli occhi divertiti di Leon.
«Ti ho mandato tutto per mail.» Si stiracchiò al sole mentre la donna affondava le mani nella borsa. «Non aprire gli alleg…» Non riuscì ad avvertirla per tempo e nel bar si diffusero urla di donna – che costarono un’occhiata disgustata dai vicini di tavolo – e prima che Nataa riuscisse a richiudere il telefono, Rebecca aveva raggiunto ‘il terzo stadio dell’estasi. ’ Per un istante la donna si soffermò a scrutare il cellulare, chiedendosi quanti stadi potesse raggiungere la recluta. Scosse la testa. «Tu. Ti pare il caso?» La voce fu un filo metallico che lo strozzò.
«Ti chiedevi dove fosse il vecchio Leon. Ecco, era nel tuo cellulare.»
Lo squadrò torva, negli occhi un rimprovero muto, finché non si ritrovò a ridere di gusto e dovette soffocare le risa in una mano. «Mi mancava.» Sussurrò e fu la prima cosa sincera.
«Mancava anche a me.» Sbuffò portando il caffè alle labbra – il gusto sul fondo fu amaro, come ciò che sarebbe restato dal loro incontro. «Lascia, offro io, questo te lo devo.»
«Ho scoperto come farti pagare, dopo tutti questi anni? Metterti in imbarazzo.» Gli accarezzò la guancia.
Le afferrò la mano tra le sue dita per portarla alle labbra e sfiorarla con un bacio. «Io avrei optato per un ristorante di lusso, ma ormai hai scelto uno squallido bar.»
«Il pomeriggio è lungo e il posto ben fornito.» Socchiuse gli occhi al suo tocco, ricordando un tempo che non poteva davvero dimenticare e restando ferita un momento in più.
Portò lo sguardo oltre le spalle di Leon: la ragazzina che stava osservando se n'era andata lasciando il giornale sul tavolino, una generosa mancia e una tazzina di caffè alla nocciola vuota – chissà se un giorno si sarebbe pentita guardando indietro.
Il passato. Quante volte aveva ripercorso i sentieri di ieri cadendo nei suoi errori, ancora e ancora, era la sua debolezza non riuscire ad avere altro che rimpianti. La sua ombra nello sguardo.
«Ti andrebbe di pagarmi la colazione?» Si morse le labbra ritrovando gli occhi di Leon.
L’uomo corrugò la fronte. «Ne sei sicura?»
Nataa si alzò, accostandosi all'uomo. Posò la fronte sulla sua e ne respirò l'odore - mare, sale e guerra - ricordando il passato. Ne sentiva la mancanza. Le dita di Leon scivolarono sullo zigomo, ruvide ma non c'era nulla di più piacevole ne era certa; percorse la linea della mandibola e scese sul collo.
Nataa gli artigliò i capelli con forza e lo portò a sé, ne cercò la bocca e lasciò che fosse il suo sapore a invaderla e trovarla più fragile. «Sì.» Sussurrò ancora sulle sue labbra.
***
Fu pungente l'amaro che si riversò in bocca, un groviglio di ricordi che s'incollò al palato come sangue incancrenito. Ruggine del passato, infettata dagli errori -scelte che hanno distrutto e forgiato- eppure morbida e dolce.
Chiuse gli occhi e reclinò la testa indietro, assecondando il movimento lento delle dita sulla schiena. Fu un tocco ruvido che divorò la pelle: insano, sbagliato, un'infezione che bruciò.
Era sempre stato fuoco il loro cercarsi, non ne uscirono mai illesi da quella guerra che li consumava fuori e dentro le coperte.
Sorrise sulle sue labbra quando le sfuggì un sospiro -lo odierà, lo sa- ma in quel momento si arrese e lo cercò, le mani perse tra i capelli per trovarlo una volta in più e chiamarlo a sé.
Fu aspra la sua bocca serrata sul seno, fece male, ma era di dolore che aveva bisogno per dimenticare se stessa e affogare la solitudine che l'accompagnava.
«Leon» Quel nome fu un suono disarticolato e rubò un gemito all'uomo, che vibrò sulla pelle attraversandola con memorie di ghiaccio.
Rabbrividì. Le unghie stridettero contro il muro, non poteva cedere, non a lui, non al tormento di notti opache come vetri innevati.
La spinse contro la porta, le unghie sui fianchi chiesero un arrendersi a cui non era mai stata disposta, eppure lo seguì e sulle labbra il respiro fu un rantolo di sconfitta.
Una battaglia contro le risate cigolanti dei fantasmi, un sangue che non sporcò.
I polpastrelli di Leon seguirono la memoria di una cicatrice condivisa, una storia solo loro -le urla, il dolore, la morte- che ancora annegava nella notte: un cordolo nuovo percorreva lo zigomo dell’uomo e Nataa lo sfiorò, un racconto che ferì più di una lama perché narrava un'assenza dolorosa.
Le dita corsero a graffiare le cosce.
Respiro contro respiro combatterono il gelo che li avrebbe aggrediti, la lingua lambì la spalla risalendo la linea del collo, solo per soffermarsi a imbrigliare un brivido a cui il corpo si arrese.
«Quanto tempo?» Chiese Leon e non voleva davvero saperlo. Gli bastò perdersi su quelle labbra e in quel sapore che sapeva di buio e mare.
L'illusione di essere completi, irraggiungibili, fu una voglia che si sfaldò tra le dita.
Se ne rense conto Nataa, vissuta nel vuoto che si celava tra il tutto. E lo sapeva Leon, nato nel nulla.
Le mani della donna lo sospinsero via e si ritrovarono naufraghi in una stanza. Il fiato rotto.
«Dobbiamo parlare.»
«Preferivo che la lingua la usassi in altro modo.»
Estrasse la pistola e la puntò contro la fronte dell'uomo.
«Seduto.»
Leon indietreggiò fino a scontrarsi con il bordo del letto su cui ricadde con un tonfo. «Non perdi il vizio di comandare.» Le labbra in un sorriso ironico.
«Sta zitto.» Ringhiò tra i denti mentre rovistava nella borsa alla ricerca di un fascicolo senza perdere di vista l’uomo, trovato, lo lanciò sul letto. «Leggi.»
«Philip Jaeskin. Susan Boates. Vincent Leroy.» L’uomo scorse la lista, le foto, i nomi, i volti. Ripercorse con lo sguardo le parole, imprimendole nella memoria. «E quindi?»
«Hanno creato una squadra per indagare su questi omicidi. Tre membri dell’Ordine morti in circostanze che vogliono mandare un messaggio; credevi non avrebbero aperto un’inchiesta?» Nataa stirò le labbra in una linea sottile.
«Hai pensato subito a me? È gentile da parte tua.»
La donna indicò le foto. «Non prendermi per il culo, Leon.»
«Magari!» Sogghignò e il calcio della pistola lo colpì sulla nuca.
«Lo meritavano.» Asserì Nataa. «Ma devi fermarti, non potrò proteggerti a lungo.»
«Devi fidarti.»
«Non è un problema di fiducia!» Sbottò spazientita. «Si tratta di omicidi e dell’Ordine che ti sta dando la caccia.»
«Ti stai preoccupando per me, Arroway?» Un sorriso sornione gli solcò il volto, morendo nel momento in cui il cane scattò con un click che risuonò nella stanza. «Vuoi giustiziarmi?» Sollevò un sopracciglio. «E dopo, Nataa? Quanti rimpianti avresti quando la notte il mio fantasma verrà a sussurrare al tuo orecchio? Sei troppo debole per questo.»
Le dita della donna si rafforzarono sul calcio. «Ho ordine di uccidere sul posto il colpevole.»
«Fallo. Avanti.» Leon afferrò la canna e la puntò alla propria fronte. «Sii il loro burattino fino in fondo.»
Si ritrasse e lasciò che l’arma ricadesse al suo fianco. «Non lo farò e continuerò a coprirti, ma c’è una cosa che voglio in cambio.»
La risata rauca di Leon rimbombò tra le pareti spoglie del desolante albergo a ore. «Sempre a pretendere qualcosa.» Sputò tra i denti. «E cosa posso fare per te?»
Nataa estrasse una foto, ne ripercorse i contorni con il pollice, la linea degli occhi addolcita in un sorriso, così come le labbra. Leon scorse lo sguardo e percepì l’odore della neve posarsi sulle sue spalle, del lupo che era sempre stato tra loro. Non guardò l’immagine. «Quali sono i tuoi ordini?»
«Trovarla e portarla alla sede centrale per un processo.»
«Una condanna a morte.»
Annuì.
«Vuoi salvarla?»
Annuì di nuovo. Le parole spezzate in gola e negli occhi l’illusione di una fine, già scritta, su una piana innevata di sangue e rancore; lì si sarebbero infrante le maschere per trovare una pelle che non credeva di avere, una colpa incisa nel petto le avrebbe frantumato l’esistenza.
«Sei davvero così ingenua, Arroway, o stai mentendo a te stessa?» La voce roca sembrò riscuotere Nataa dal torpore. «La morte sarà il tuo regalo per lei.»
Ringhiò.
«Ti accompagnerò.»
«Grazie.»
«Avresti potuto solo chiedere e ti avrei seguita lo stesso.»
Scosse la testa e per un istante sembrò tornare una ragazzina rotta.
Leon tese le dita sul suo volto e Nataa poté sentire l’odore del sangue invaderla – mani da guerriero fatte per ferire e non per consolare. «Sarò con te, lo prometto.» Le sfiorò lo zigomo e sorrise al sussulto della donna. «Ti faccio ancora quest’effetto?» Sussurrò cercando le labbra.
Nataa si scostò, la bocca stirata in una smorfia imbarazzata.
«È un no?»
«Rael.» Mormorò a mezza voce mentre si appoggiava contro lo stipite della porta, gli occhi a vagar per la stanza senza trovare il coraggio di soffermarsi sull’uomo, le braccia incrociate sul petto.
Leon reclinò la testa di lato, la fronte aggrottata.
«C’è un’altra persona nella mia vita, Leon.» Alzò lo sguardo al soffitto. «Non avrai creduto ti aspettassi per sempre.»
La bocca socchiusa cercando parole sferzanti per nascondere quel pungolo che l’aveva punto nella testa e nel petto. «Condoglianze a lui. Ha tutto il mio rispetto.» Il tono scanzonato a nascondere la verità – nelle orecchie la voce di Nataa: ‘le persone non cambiano mai. ’
La donna scoppiò a ridere, una risata amara. «Sei ridicolo, nascondi perfino a te stesso la verità.»
«La mia reazione ti dà così fastidio?» sollevò un sopracciglio.
«Avrei voluto vederti reale, almeno nel momento in cui mi hai perso.»
«Tu avresti voluto vedermi soffrire per riscattare il dolore che ti ho fatto patire, nient’altro, Nataa. Sii sincera con te stessa.»
Colpita e affondata. Digrignò i denti e strinse i pugni.
«Se ti aspettavi che mi prostrassi ai tuoi piedi per supplicarti di restare e aspettare, hai sbagliato di brutto.»
Nataa scosse la testa. «Non hai capito nulla, come sempre.» Nella voce una nota di rabbia. «Avrei voluto che per un solo istante ti fosse importato di me.»
Sembrò una ragazzina, gli occhi fissi sull’uomo cercando nel passato un motivo per andare avanti, un’insicurezza che la divorava e a cui non riusciva a sfuggire se non attraverso gesti e parole che nulla significavano davanti alla realtà, Leon l’amava e l’avrebbe sempre fatto. Si alzò di scatto dal letto raggiungendola e portandola a sé, una stretta che molto raccontava di un uomo che non era disposto a chiedere perdono né a tornare sui suoi passi, ma pronto a tenderle una mano e raccoglierla. «Sono felice per te ma mi mancherai.»
Si aggrappò alle spalle dell’uomo affondando il volto nell’incavo dl collo: le dita di Leon s’intrecciarono ai capelli – una dolcezza nuova, il sapore della perdita sulle mani. «Mi mancherai anche tu, dannato idiota.» Si trovò a sorridere e stringerlo più forte. «Ti ho amato, molto.»
«E chi può fare a meno d’amarmi?» Ridacchiò al suo orecchio, non era capace di affrontare i momenti seri se non con una battuta sulle labbra e ingoiando il dolore e le parole. Non riuscì a dirle che l’amore non sarebbe mai finito.
«Cretino.» Berciò Nataa picchiandolo contro il petto e facendolo indietreggiare d’un passo.
Tornò serio il volto di Leon. «Perché non hai chiesto a Rael d’accompagnarti?»
Aggrottò la fronte Nataa e portò lo sguardo oltre le sue spalle, l’uomo scoppiò a ridere perché la conosceva meglio di quanto potesse dire di sé. «Non vuoi sporcarlo con il suo sangue, o non riusciresti più ad avvicinarti. Io, invece, sono sacrificabile.»
«Sono vigliacca.»
«Io direi una -censura- stronza, ma sono punti di vista.» Le sollevò il mento.
«Voglio poter avere una possibilità.»
Rael l’aveva cercata tra le macerie della polvere in cui si era trasformata, attraverso i suoi occhi riusciva a trovare il sole dietro le nubi e il sorriso tra le lacrime. Era un odore simile al suo, in cui riconosceva il suo stesso dolore, ma lui aveva trovato una strada nuova da percorrere e le insegnava a cadere, solo per rialzarsi più forte. Non era amore, perché Nataa non si concedeva il lusso d’aver qualcuno da perdere – troppo aveva lasciato alla vita per permetterle di toglierle altro – ma valeva la pena proteggerlo.
«Sei la solita egoista.» Sorrise Leon sdraiandosi sul letto, gli occhi sul soffitto.
«Mi occuperò dei problemi con l’Ordine.» Non si voltò indietro nell’aprire la porta e scivolare via dalle mani di Leon.