Sia io che gli avversari non ci aspettavamo l’incontro e il fattore sorpresa aveva giocato a mio vantaggio, consentendomi di voltarmi e tornare di corsa sui miei passi.
Nascosta nell’oscurità della strada attigua, mi ero azzardata a sbirciare oltre l’angolo per capire cosa stessero facendo i miei possibili inseguitori: li vidi riuniti attorno ad uno Sahagin più grosso, sicuramente colui che deteneva il comando, intenti ad ascoltare quelli che per me erano solamente versi rauchi ma che per loro significavano ordini precisi.
Li osservai disperdersi rapidamente, secondo un chiaro schema e per l’ennesima volta imprecai contro la malasorte; quella zona di Lindblum era accessibile solo da due vie e quasi certamente i nemici erano stati dislocati in ciascuna di esse, in maniera tale da impedirmi una fuga semplice.
La via nella quale mi trovavo altro non era che un vicolo cieco. Sarebbe stato meglio togliersi da lì in fretta, prima di fare la fine del topo col gatto; sempre sfruttando la scarsa illuminazione dell’area mi spostai, rimanendo il più possibile rasente al muro e tornai nella zona dove avevo incontrato il gruppetto.
Come previsto era tenuta sotto controllo da un paio di Sahagin, che tuttavia mi stavano dando le spalle.
Era un’occasione da sfruttare.
Avanzai silenziosamente lungo il selciato, ben attenta a non produrre alcun rumore; erano lì, a diversi metri di distanza e fino ad allora non avevano avuto sentore della mia presenza.
Dovevo concentrarmi, non potevo farmi scoprire subito al primo tentativo.
Presi un lento e profondo respiro per allentare almeno in parte la tensione che inevitabilmente mi stava assillando: i battiti del cuore rallentarono fino a tornare normali, i muscoli persero tutta la rigidità e si rilassarono. Ancora qualche passo, senza fretta ma con sicurezza.
Improvvisamente con la punta dello stivale urtai qualcosa, facendolo rotolare brevemente lungo il lastricato; sebbene il tutto durò a malapena due secondi e il rumore prodotto fu a stento udibile, uno dei nemici si volse di scatto con il tridente puntato in avanti e gli occhi colmi di sospetto.
Fui rapida, e fortunata devo ammetterlo, a nascondermi nella rientranza del muro alla mia sinistra, addossandomi il più possibile all’ingresso di una casa e rimanendo in attesa, immobile come una statua di marmo.
Il silenzio era tale da permettermi di sentire il mio cuore, che aveva ripreso a martellare frenetico; passai diversi secondi in quella posizione, senza avere la minima idea di cosa fare.
Piccole gocce cristalline presero a scorrere lente lungo le tempie, scivolando poi fastidiosamente giù per il collo. Mi trattenni a stento dall’asciugarle col dorso della mano.
No! Devo calmarmi e riflettere. Non posso vederlo ma sono in grado di sentirlo.
Chiusi gli occhi e mi apprestai ad ascoltare.
Funzionò.
Dopo quelli che parvero appena pochi attimi captai ciò che m’interessava: dei passi, leggeri, inudibili per un orecchio non allenato.
Mi concessi un sorriso: quelli non erano avversari da poco, sapevano come muoversi.
Io però non ero da meno.
Avevo una carta da giocare che, sebbene semplice e non completamente affidabile, forse si sarebbe rivelata efficace: cercai di calcolare il momento esatto in cui sarebbe passato accanto a me e, giusto qualche istante prima, mi castai un Vanish.
Stavo esercitandomi con quel tipo di magia da un tempo estremamente ridotto perché potesse resistere a lungo; dovevo solo sperare che lo Sahagin non si trattenesse troppo nei paraggi. Lentamente, sempre evitando di fare rumore, estrassi il coltello, che per ogni precauzione tenevo sempre con me, dalla propria guaina. Le spade sarebbero risultate eccessivamente ingombranti in una situazione come quella.
Il leggerissimo sibilo della lama che fuoriusciva mi parve assordante ma l’altro sembrò non accorgersene.
Lo osservai chinarsi ad osservare la pietra che avevo involontariamente colpito, poi alzare il muso e annusare a fondo l’aria. Avvertii la potenza dell’incantesimo farsi sempre più debole e pregai che il mostro si desse una mossa.
Finalmente questi parve convincersi dell’assenza di una qualsiasi preda e si voltò per tornare dal compagno, che nel frattempo non si era mosso dalla propria postazione.
Non avrei avuto un’altra occasione.
Quando passò oltre il nascondiglio decisi che era il momento di agire: strinsi forte l’impugnatura del pugnale e con uno scatto mi lanciai fuori.
Prima che il nemico potesse solo rendersi conto di quanto stava accadendo, lo raggiunsi e gli conficcai la lama tra capo e collo; l’azione era stata talmente rapida che egli non ebbe nemmeno il tempo di emettere un solo gemito. Peccato che il tonfo del suo corpo a terra fu come il suono di un gong nella sala di un tempio.
Il secondo Sahagin si girò e rimase un poco interdetto, mentre faceva passare ripetutamente gli occhi da me al cadavere disteso.
Vidi la rabbia traboccare dalle sue pupille un secondo prima che si lanciasse nella mia direzione simile ad un toro infuriato; come gli altri vicoli, anche quello non consentiva un’ampia manovra di spostamento.
Il balzo laterale fu appena sufficiente per schivare i tre denti acuminati della sua arma, che passarono a fil di pelle.
Il calcio diretto al polso servì solamente a indebolire leggermente la presa sul manico.
Mi spostai velocemente alle sue spalle, sguainando Ryusei e alzando la guardia.
Un lungo incrocio di sguardi, alla ricerca di un minimo varco nelle rispettive difese. Il mostro scattò in avanti, mimando un affondo con l’impugnatura del tridente ed io indietreggiai quel tanto che bastava per non farmi colpire. Non potei trattenere la sorpresa quando fu invece un violento getto d’acqua a centrarmi in pieno petto, scagliandomi contro una cassa abbandonata sul lato della strada; la botta non fu violenta ma sufficiente per lasciarmi appena intontita.
Rimproverandomi mentalmente per essere cascata in una finta così ovvia, alzai gli occhi sullo Sahagin e lo vidi pronto a lanciare un ruggito di avvertimento per i compagni nelle vicinanze.
Stavo per trovarmi nuovamente in guai grossi.
«Novox!»
La magia castata istintivamente ottenne un risultato impeccabile: il nemico spalancò la bocca ma non ne uscì alcun suono. Approfittando dell’attimo di confusione venutosi a creare in lui mi rialzai e corsi in avanti, calando un fendente con Ryusei dall’alto verso il basso. Il manico dell’arma avversaria, posta in orizzontale sopra la testa, riuscì ad intercettare il colpo ma non potè evitare di lasciare un varco più che considerevole nelle difese: la lama di Jugan penetrò senza alcuna difficoltà la carne della creatura all’altezza dello stomaco, uscendo poi dalla schiena.
Fece appena in tempo ad esalare un rantolo di agonia, prima di accasciarsi in avanti e scomparire in un mare di lunioli.
Buttando fuori con un lungo sospiro parte della tensione accumulata, rinfoderai le spade e raggiunsi la fine del vicolo: sbirciai guardinga attorno, notando con sollievo che la strada era libera. Un inconfondibile brontolio sordo proveniente da un punto imprecisato alla mia destra mi portò tuttavia nuovamente in allarme: dunque dovevo davvero eliminarli tutti, se volevo tornare verso il centro della città senza problemi?
Scossi nervosamente la testa. Se non c’era altra scelta, allora avrei fatto così.
I prossimi due saranno certamente rivolti nella mia direzione, riflettei. Dunque non posso pensare di muovermi come ho fatto prima. Devo trovare un altro modo.
Già, ma quale?
Fissai ogni centimetro della zona circostante, senza però trovare niente di utile al mio scopo. Ripassai allora le magie di cui avevo completa padronanza, cercando quale di esse potesse tornarmi utile.
Gli Sahagin non avevano debolezze elementali, perciò scartai immediatamente quelle ipotesi: mi serviva qualcosa che avrebbe potuto darmi un vantaggio immediato. Qualcosa come…
D’accordo, è un’idea suicida. Speriamo solo funzioni.
Mi avvicinai il più possibile all’angolo della strada, poi uscii allo scoperto. I mostri mi aspettavano con le armi sollevate, evidentemente avevano percepito il pericolo o forse, dal loro punto di vista, l’ebbrezza di una nuova caccia.
Un Caos lanciato con tempismo fece barcollare il più vicino dei due, che rimase incerto per qualche attimo: poi, improvvisamente, ruggì qualcosa in direzione dell’altro Sahagin e lo colpì duramente al braccio.
Il tridente cadde a terra con un clangore secco, mentre sangue nero sgorgava dalla profonda ferita; quella vista parve far tornare momentaneamente in sé il mio avversario che fissò allibito prima la propria arma e poi il compagno.
Durò solo un istante.
La confusione, la follia, non saprei nemmeno io come chiamarla, prese ancora una volta il sopravvento sulla mente semplice del mostro, che con un ennesimo affondo tolse la vita alla creatura di fronte a lui, impossibilitata a difendersi.
Poi, cogliendomi totalmente di sorpresa, rivolse le punte affilate verso se stesso.
Un lungo ruggito squarciò il cielo chiaro di Lindblum.
Si era dato la morte.
Ammutolita davanti a quello spettacolo, se così si poteva chiamare, pensai con un brivido che Caos era una magia davvero versatile: i suoi effetti variavano a seconda del soggetto o, più probabilmente, a seconda della mente di chi ne cadeva vittima.
Andava adoperata con estrema cautela.
Non credo riuscirei mai ad usarla su un essere umano. Chi era fra il pubblico mi ha raccontato la reazione di Recks alla scorsa Sagra, non sopporterei di essere la causa di una scena del genere.
Con queste riflessioni mi diressi verso il punto di partenza della competizione, quando un ricordo improvviso mi bloccò sul posto.
Un momento… Io ne ho eliminati solo quattro, ma gli Sahagin erano cinque…
A conferma di tale pensiero, un improvviso dolore fra le scapole mi scosse dalla testa ai piedi: un’asta metallica mi aveva colpito violentemente alla schiena.
Con un gemito strozzato barcollai, malferma sulle gambe, e una mano robusta mi afferrò nel contempo per la divisa, scagliandomi qualche metro più in là.
Miracolosamente riuscii a mantenere l’equilibrio ma l’aggressore non perse tempo: avvicinatosi sferrò un pugno che mi raggiunse in pieno ventre, facendomi piegare in due.
Crollai in ginocchio, tossendo.
Tentai almeno di sollevare Ryusei, sulla quale non avevo ancora lasciato la presa; il nemico ne schiacciò la lama sotto il piede, costringendomi ad abbandonarla.
Alzai lo sguardo: l’imponente Capo Sahagin incombeva su di me, gli occhi truci fissi nei miei e il tridente pronto a colpire.
Rotolai di lato, schivando per un soffio il colpo, e strinsi fra le dita Jugan. Squadrai il mostro pensando ad una possibile strategia per uscirne viva.
Uno scontro diretto prolungato sarebbe la mia fine, però non posso nemmeno evitare tutti i suoi assalti. Devo provare a bilanciare le due cose.
Avanzai di qualche passo, ostentando una sicurezza che in realtà non provavo: avevo un nodo alla gola che non andava ne su ne giù.
Chi avevo di fronte non era un qualsiasi mostro, come quelli che avevo affrontato fino a quel momento.
Lui non amava combattere, amava uccidere. Non ci voleva una scienza infusa per capirlo.
Con un ruggito appena accennato, m’intimò di farmi sotto. Quasi mi parve di scorgere un ghigno dipingersi sul suo muso.
L’assalto della creatura fu travolgente e inatteso: combatteva con violenza, mirando chiaramente a stancare e confondere l’avversario. Era dotato di una forza poderosa ma non mancava nemmeno di agilità o tecnica. Il fatto inoltre che attaccasse prevalentemente sul lato sinistro, dove non potevo vedere i colpi in arrivo, mostrava anche quanto fosse accorto.
Iniziai a retrocedere da subito: paravo sempre all’ultimo istante i fendenti e non riuscivo ad organizzare neanche una controffensiva; dopo un paio di battute, anche la seconda spada mi volò via di mano e io caddi rovinosamente a terra, il tridente puntato alla gola.
Trattenni il respiro nell’attimo in cui lo vidi alzarsi pronto a colpire.
La prontezza di riflessi mi salvò ancora una volta e le punte acuminate si fermarono su di un Protect castato all’ultimo. Con un’ennesima capriola mi portai fuori dalla traiettoria e raggiunsi Ryusei.
Non pensare a niente. Combatti! Combatti e basta!
Chiusi gli occhi. Svuotai la mente.
«Riesci a malapena ad evitare gli ostacoli e capire da che parte arriva un attacco. Prima devi concentrarti su quello. L'attacco verrà poi. Se non sai da che parte schivare, finirai a fare da spiedino sulle braci di Yevon al primo assalto, credimi. Lasciati andare e senti quello che c'è intorno».
«Mi spieghi che cosa serve difendermi alla cieca se poi dovrò combattere con un occhio solo? Non sono completamente cieca».
«Tu credi? Non hai un filo di sensibilità per quello che ti succede intorno ad occhi chiusi, figuriamoci ad occhi aperti».
«E’ un controsenso! Come posso non avere sensibilità ad occhi aperti? La metà, ma ci vedo!»
«Tu credi?»
Silenzio.
«Non capisci che metà vista per ora ti è d'intralcio? Perdi dimensioni, distanze, precisione. Difendi e colpisci senza quella, il resto è poi un di più che può girare solo a tuo favore».
Per un attimo ci fu il buio assoluto ma presto il nulla si animò dei sibili del tridente vicino a me e l’udito, non più ostacolato dalla vista, potè corrermi in soccorso.
Ora sentivo i colpi. Capivo da dove arrivavano.
Rimasi così finchè non sentii il fendente dello Sahagin che calava nella mia direzione. Avvertii la corrente d’aria causata dall’arma in arrivo. E in quel momento fui pronta per iniziare davvero.
Lo schivai all’ultimo istante spostandomi lateralmente e iniziai a prendere confidenza con lo spazio in cui mi muovevo.
Non paravo, non assaltavo. Mi limitavo a scansare con precisione ogni colpo; la creatura menò subito un fendente dall’alto con l’intento di spezzarmi la spada, ma andò a vuoto. Lo evitai guizzando di lato e finendogli alle spalle: non si fece cogliere alla sprovvista e senza fermarsi cercò di colpirmi alla testa.
Mi abbassai.
Chiusi di nuovo gli occhi e ascoltai il ritmo dei passi del mio nemico. Ne indovinai la cadenza, li memorizzai e capii quali fossero i suoi movimenti abituali. Solo allora iniziai ad attaccare.
Il punto debole del mostro era la prevedibilità: aveva una tecnica impeccabile ma proprio per questo scontata. In breve tempo fui in grado di anticipare le sue mosse. Allora cominciai a muovermi con velocità, parando ogni singolo colpo.
Presi ad attaccare anche io con ampi fendenti dall’alto, costringendolo ad indietreggiare, seppur di poco.
Mi fermai una frazione di secondo per caricare il successivo assalto e lui non si lasciò sfuggire l’occasione: mi colpì con un violento calcio allo stomaco, facendomi retrocedere boccheggiante.
Subito dopo una serie rapida e imprevedibile di affondi e fendenti, diversa da tutti quelli ricevuti fino a quel momento. Sembrò che la sua scelta si rivelasse azzeccata: ero talmente impegnata a rispondere colpo su colpo da non poter apparentemente avere spazio per andare all’attacco.
Naturalmente non avevo la stessa forza dello Sahagin, motivo per cui non potevo far fronte ai suoi ripetuti attacchi; preferivo schivarli piuttosto che intercettarli. Tuttavia la belva non demordeva di certo: roteava il tridente in tutte le direzioni e mi costringeva a spostarmi di continuo.
Capii che non avrei potuto sostenere quello scontro ancora a lungo: le punte d’acciaio mi fischiavano sempre a pochissima distanza dal corpo.
Un solo colpo a segno sarebbe stato fatale.
Decisi di tentare il tutto per tutto: rimasi immobile, tanto per dargli l’impressione che avesse avuto la meglio. Il che non era poi così lontano dal vero…
Il Capo Sahagin si lanciò in un’ultima carica dall’alto.
Mi limitai a saltare.
In un unico gesto bloccai l’arma nemica al suolo con un piede poi, grazie ad un movimento fluido del braccio, calai la lama all’altezza del suo gomito destro.
Il ruggito di dolore si levò nell’aria: il mostro mi fissò con occhi iniettati di sangue e tentò di colpirmi con l’unica zampa rimasta, ma ormai la partita era mia.
Sollevai Ryusei con due mani e l’abbassai con forza verso il collo teso della creatura…
Qualche minuto dopo mi ritrovai seduta a terra con la schiena poggiata contro il muro esterno di un’abitazione; respiravo affannosamente, mentre osservavo il cielo farsi mano a mano più rosso.
«Non è il fatto di rimanere indietro. E' semplicemente che, in un modo o nell'altro, non sei più tu e devi trovare il modo di adattarti». Sottovoce ripetei quella frase, che mi era stata detta poco tempo prima.
'Cause you know we'll make it through, we'll make it through.
Just stay strong
'Cause you know I'm here for you, I'm here for you.
«Avevi ragione» mormorai, alzandomi e incamminandomi verso il punto di ritrovo.