Osservai Nataa entrare in infermeria e mi diressi verso l’edificio adibito ad alloggio: dentro vi trovai quello che per me era un completo sconosciuto, sicuramente un Cadetto.
Una coda con tanto di mano bionica all’estremità era il dettaglio che lo rendeva particolare e interessante agli occhi della piccola sopravvissuta che, immersa ancora in un sonno profondo, aveva stretto forte la mano fra la sua.
Probabilmente le dava un senso di sicurezza.
«Ciao» salutò il ragazzo non appena mi vide entrare. «Sei un SeeD vero? Piacere, il mio nome è Teoskaven von Strongfist, Teo per gli amici». Si mosse un attimo a disagio nella sua posizione. «Scusami, come vedi mi ha scambiato per il suo Peluche personale» aggiunse con un mezzo sorriso.
L’osservai qualche istante in silenzio, percependo il disagio che si venne a creare, poi mi avvicinai e gli tesi la mano, che lui strinse con vigore. «Piacere, Lenne Silveross. Ero giusto venuta a controllare lei».
Indicai la ragazzina la quale, notai, aveva aperto gli occhi e li stava facendo saettare da me al Cadetto con una certa tensione; non pareva tuttavia intenzionata a mollare la presa sul suo “giocattolo”.
Mi sedetti sulla branda accanto a lei, osservandola rannicchiarsi.
Allungai una mano passandogliela lenta fra i capelli in un gesto rassicurante: dapprima tesa, la piccola si rilassò lentamente finché non si sollevò a sedere guardando entrambi con quieta curiosità.
Posò gli occhi cenerini sul Cadetto, prima di sussurrare un flebile e incerto: «T…eo».
«Ehi, allora sa parlare!» si rallegrò lui sorridendo in direzione della bimba, che lo ricambiò.
Si volse verso di me. «L…e…». Si fermò poi tentò ancora una volta. «Le…n…e».
«Ed è anche molto attenta: ha sentito i nostri nomi una sola volta e già se li ricorda. Spero potrà aiutarci a capire cos’è successo a questo posto».
Dall’incomprensione che balenò nel suo sguardo mentre seguiva la nostra conversazione, capii che non sarebbe stato affatto semplice intenderci l’una con gli altri.
Improvvisamente, una bionda testa sbucò dall’ingresso.
«Mi hanno detto che sei un alchimista» esordì Tidus in direzione di Teoskaven. «Avrei bisogno del tuo aiuto, mi seguiresti?».
Piuttosto perplesso, lui annuì e dopo aver sciolto la presa sulla coda, con evidente disappunto della ragazzina, si alzò e seguì il Commander all’esterno.
Rimasta sola con lei, incrociai le braccia al petto cercando di pensare a qualcosa da farle fare.
Fu la bimba a decidere per me: si rannicchiò ancora una volta su se stessa con l’intenzione di riposare.
La vista di così tante persone e ciò che probabilmente aveva passato dovevano averla spossata molto.
La guardai respirare sempre più regolarmente sino a che le palpebre non si abbassarono e il sonno prese di nuovo il sopravvento; d’istinto le sfiorai il viso con le dita, poi mi alzai e tornai verso l’infermeria. Leon era da tenere costantemente sotto controllo.
* * * * *
La prima volta che tornò in sé, non fu che per un intervallo di lucidità brevissimo. Non sapeva quanto fosse passato dal momento in cui aveva perso i sensi: potevano essere ore o anni, indifferentemente. Nel limbo in cui era sprofondato fino a poco prima, il tempo non aveva nessun significato.
Non aveva nemmeno la forza per muovere un dito.
Il luogo dove si trovava era immerso nella penombra. Era disteso su un morbido materasso, che aveva un vago odore di fieno misto a qualcosa di più dolce.
Il suo cervello non riuscì a registrare altro al di fuori di questo.
Sono vivo, pensò.
Dopo quest’ultima considerazione scivolò nell’incoscienza.
Il secondo risveglio avvenne in modo più traumatico.
Furono il dolore e la febbre a strapparlo dal coma: una serie di fitte lancinanti, dovute alla ferita, attraversavano il suo corpo come ondate che gli toglievano il respiro.
Gemette e s’inarcò, ansimando e rabbrividendo violentemente.
Non riuscì nemmeno a sfogarsi nelle grida. Il modo in cui respirava, poi, sarebbe stato in grado di dare gli incubi anche al più duro dei SeeD abituato a morte, battaglie e ferite.
Sentì su di sé delle mani che gli impedirono ulteriori movimenti, poi una voce: «Stai fermo, Leon. Ti salteranno i punti se ti agiti in questo modo».
Lui smise di lottare, si tese come una corda di violino sotto la persona che col suo peso lo teneva immobile; infine tossì, sputando qualcosa di viscoso e dal sapore metallico.
Aprì gli occhi ma vide solamente bagliori indistinti e vaghe sagome scure. Il dolore lo accecava.
«È cosciente?» chiese una seconda voce, leggermente più ansiosa.
«Non del tutto, credo» rispose la persona che lo stava trattenendo. «Se ci sei, Leon, aiutaci: bevi».
Il pilota sentì un liquido fresco bagnargli le labbra e lo ingurgitò più per istinto che per spirito di collaborazione; il sapore era amarissimo, anche se in parte coperto da aromi a lui sconosciuti e gli parve che stesse incendiando l’esofago. L’effetto fu tuttavia quasi immediato.
Gli spasmi si calmarono fino a cessare del tutto e fu come se ogni fibra del suo corpo di rilassasse nel modo più totale e completo. Pian piano gli occhi passarono dall’essere vacui al loro colore normale.
La presa sui polsi si allentò, percepì la presenza di qualcuno chino su di lui che gli sussurrava parole alle quali annuì meccanicamente, esausto; all’improvviso avvertì addosso la stanchezza di quei giorni di tensione e lotte impari.
«Dormire…» disse senza voce, ancora dolorante per gli spasmi che gli avevano strappato a forza urla silenziose dalla gola. «Ho… bisogno… di dormire…».
Il silenzio che accolse quelle poche parole fu la conferma che avrebbero ascoltato la sua richiesta; sentì la sua testa sollevarsi e poggiarsi subito dopo su qualcosa di più morbido, mentre dita sottili s’insinuavano fra i suoi capelli in una leggera e regolare carezza.
Sprofondò un’altra volta nelle tenebre.
* * * * *
«Come ti senti?» domandai poco dopo a Oushi. Leon si era finalmente riassopito, gli spasmi di dolore erano cessati e Nataa non si era ancora decisa a lasciarlo per riposarsi un po’.
«Come pensi che stia?» fu la risposta piuttosto stizzita. Rimasi in silenzio, finché non la sentii sospirare seccata. «Di merda, ma preferirei… rimandare le spiegazioni a un altro momento».
Annuii e le passai una mano sulla fronte. «La febbre si è abbassata ma potrebbe essere un intervallo di apiressia. Rimettiti a dormire».
Non era contenta di quella forzata immobilità ma non aveva molte altre scelte: serrò con forza le dita attorno a qualcosa che non potei vedere e chiuse gli occhi, rassegnandosi all’idea.